Bashir in Darfur, sfida alla corte dell’Aja
Massimo A. Alberizzi
Si temono ritorsioni sulla popolazione nel caso non venga rivisto il mandato di arresto. Il presidente sudanese: «Lotteremo contro il neo colonialismo». «Espulso chi non rispetta le nostre leggi».
NAIROBI – Sfidando il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, il presidente sudanese Omar Al Bashir è volato da Khartum in due capoluoghi del Dafur: El Fasher e Nyala. A El Fasher è stato accolto da manifestazioni di gioia e giubilo.
MANIFESTAZIONI «SPONTANEE» – Il corteo presidenziale era seguito da un codazzo di uomini a cavallo e a dorso di cammello. Molti i janjaweed, le milizie arabe paramilitari filogovernative che terrorizzano i civili. Ma ai lati della strada cortei di gente che sventolavano bandiere sudanesi e foto del presidente, incriminato. Sotto una dittatura non ci si può rifiutare di partecipare alle «manifestazioni spontanee». Dal palco l’uomo forte del Sudan ha tuonato contro le organizzazioni non governative, i diplomatici e la forza di pace mista Unione Africana/Nazioni Unite: «Se non rispetteranno le leggi del nostro Paese saranno espulsi tutti – ha minacciato tra gli applausi generali -. «Combatteremo contro il neocolonialismo e non permetteremo a nessuno di minare la pace e l'unitá in Sudan».
I NEGOZIATI DI DOHA – Quella di Bashir nella provincia occidentale, dilaniata da un guerra civile che ha provocato almeno 300 mila morti, è una visita dal carattere assolutamente simbolico per dimostrare ai suoi alleati (segnatamente l’Unione Africana, Lega Araba e Cina) e al mondo che il leader è sempre in sella e controlla la situazione. Negli ambienti diplomatici sudanesi corre voce che il leader di Khartoum stia preparando anche una visita a Doha, in Qatar, in previsione dell’apertura di nuovi negoziati di pace con i ribelli darfuriani, ma l’emiro locale rema perché Bashir non si presenti all’appuntamento. Per altro anche i guerriglieri hanno fatto sapere che non intendono parlare con un ricercato.
LE ESPULSIONI – Il viaggio di oggi segue anche l’espulsione di 13 organizzazioni internazionali e la chiusura di tre locali sudanesi, che aiutavano la popolazione sfollata nei campi profughi. L’accusa che viene loro rivolta è di aver collaborato con gli investigatori del tribunale internazionale. Mentre l’aereo di Bashir atterrava a El Fasher un portavoce del governo, incurante delle proteste dell’Onu perché fosse rivisto l’ordine di espulsione, ha ribadito che la decisione è irreversibile: abbiamo le prove che hanno coooperato con la Corte Penale. Le organizzazioni non governative, tra cui Medici senza Frontiere, Save the Children e Oxfam, hanno negato qualunque rapporto con gli investigatori. Resta però il fatto che questi organismi sono dei testimoni scomodi e che il governo ha sempre ostacolato il loro lavoro. L’Onu sostiene che senza le agenzie di volontariato le operazioni umanitarie (le più importanti e impegnative del mondo) crolleranno. Rischiano addirittura uno stop con conseguenze catastrofiche sulla popolazione.
RISCHIO RITORSIONI – In sei anni di conflitto si calcola che gli sfollati siano oltre 2 milioni e mezzo. Sembra quasi che sulla sorte della povera gente si giochi un braccio di ferro. Gli amici di Bashir – più o meno tutti i governi dittatoriali – hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza che l’esecuzione dell’ordine di arresto sia procrastinata di un anno. A Khartoum negli ambienti diplomatici c’è un po’ di preoccupazione per il futuro e ci si domanda cosa succederà se l’Onu respingerà la richiesta. Il Sudan cercherà una vendetta con tutte le conseguenze del caso. Se invece il consiglio di sicurezza accetterà le richieste i sudanesi ringalluzziti dalla vittoria potrebbero ritornare a massacrare impunemente le popolazioni africane che abitano il Darfur. Il presidente sudanese, chiudendo i rubinetti degli aiuti cerca di esercitare una forte pressione perché la richiesta di rinvio sia accolta. Insomma o congelate il mandato o la gente senza più nessuna assistenza aiuto morirà.
Fonte: Corriere.it
8 marzo 2009