Bagram? Peggio di Guantanamo
Theo Guzman
La prigione afgana dei misteri fa nuovamente parlare di se. Con un dossier del Pentagono che difende il luogo di pena in "linea coi principi della Convenzione di Ginevra. Con qualche eccezione che fa gridare allo scandalo chi aveva sperato nella svolta di Obama.
Kabul – La reazione, piccata, è stata immediata. E' bastato un “lancio” venerdi dell'agenzia Associated Press che accusava Obama di trattare i detenuti afgani come si è sempre fatto all'epoca di Bush, che il Pentagono ha risposto con un dossier. Brutto segno se il “nuovo” di Barack Obama, che al momento per l'Afghanistan non sta producendo grandi novità, ha bisogno della difesa d'ufficio dei comandi militari.
Il report della Difesa è arrivato sul tavolo dell'Ap spiegando che il trattamento dei prigionieri a Bagram è in linea con la Convenzione di Ginevra anche se, nel caso di qualche personaggio pericoloso, ci possono essere eccezioni. Difesa debole e contenuta in un documento, ancora inedito e preparato per il presidente, in cui i militari sostengono che l'ora d'aria la possono godere anche in tre alla volta e che esiste persino un luogo comune di ricreazione. Ma, ammette il rapporto, c'è anche chi deve stare in cella 23 ore al giorno in isolamento. Inoltre, dice il dossier, a Bagram si sono stati anche 800 prigionieri e molti di loro per anni e senza nemmeno una precisa accusa penale (tra il 70 e il 90%, ha detto la Croce rossa, l'unica che ha accesso ai detenuti, ma non all'isolamento). Non parliamo di avvocati. Ma adesso sarebbero solo 250. Un terzo di quelli che normalmente si suppone siano ai ferri: oltre 600.
Tutto ha origine con la decisione di chiudere Guantanamo e dunque con la speranza che la svolta di Obama si sarebbe riflessa anche a Bagram, l'enorme base militare a Nord di Kabul con carcere speciale annesso. Il regime nella base è rigidissimo. Anche i molti traduttori afgani che ci lavorano sono tenuti sotto stretta osservazione. Non ci si fida troppo di loro, che prendono in giro i soldati: “Come faranno a vincere – ha raccontato uno di questi – se dopo una corsetta di 60 metri hanno il fiatone, con tutta quella roba addosso!” Il villaggio che circonda la base, o meglio una lunga strada che le arriva in bocca, è un agglomerato di servizi che, dietro alte mura di cemento, nasconde le agenzie che assicurano logistica, approvvigionamenti e manutenzione di Baf, com'è chiamata in gergo. E dove il lavoro ferve. Anche per i detenuti, tanto che l'attuale "Bagram theater internment facility", in un hangar della base che un tempo ospitava i sovietici, si sta allargando: è in costruzione un luogo di detenzione più ampio che potrebbe contenere oltre mille prigionieri. Altre indiscrezioni dicono che gli americani stanno sistemando nuove strutture a Pol-i-charki, la grande prigione di Kabul.
Quella di Bagram è ciclicamente sotto tiro da parte della stampa e degli attivisti in America e a Kabul, ma quel che a Washington ha fatto reagire il Pentagono è stata una sentenza e la relativa reazione dei paladini dei diritti umani. Il Dipartimento della Giustizia ha reso noto che i detenuti di Baf non possono chiedere a una corte americana di indagare il motivo della loro detenzione. Il precedente è una sentenza della Corte suprema che, l'estate scorsa, ha consentito a due sospetti qaedisti di Guantanamo di presentare istanza a una corte americana. Forti di questo, quattro afgani detenuti a Bagram hanno tentato altrettanto attraverso i famigliari, unico mezzo, non avendo accesso alla giustizia afgana, per sapere del proprio destino. Ma la cosa è andata male. E' stato lo stesso ministero a spiegare, con due distinte motivazioni, che i detenuti di Baf non sono equiparabili a quelli di Guantanamo, poiché si tratta di “combattenti nemici”, arrestati durante “operativi militari” in una “zona di guerra d'oltremare”. La stessa motivazione di sempre del Pentagono e cavallo di battaglia dell'Amministrazione Bush. Ma adesso c'è Obama e il senso di frustrazione serpeggia tra avvocati e attivisti. Tra cui c'è la procuratrice Tina Monshipour Foster, che si fa carico dei detenuti di Baf: “Ci aspettavamo – ha detto – assai di meglio”.
Nel cuore della capitale, al ministero della Giustizia, hanno già riparato i vetri dopo l'attacco di metà febbraio nel quale i talebani sono risusciti a entrare cercando di emulare Mumbay. La polizia è stata efficiente e ha ucciso tutti i kamikaze, anche se la battaglia è durata due ore e l'attacco in simultanea su tre obiettivi, tra cui il centro di smistamento dei detenuti, ha scosso i nervi di una città che vive blindata. Soprattutto nella zona delle ambasciate e delle caserme che ospitano soldati Nato e Usa: Shashdarak, l'area più pericolosa della capitale. Il segnale era chiaro e pure la rivendicazione dei talebani. Che stanno facendo della giustizia un loro cavallo di battaglia. A quanto si racconta, la amministrano nelle zone sotto il loro controllo dirimendo i contrasti sulla terra, normalmente negoziati a fucilate, o garantendo la filiera del trasporto su strada, taglieggiato da banditi e poliziotti che integrano così il loro magro stipendio di 60 euro al mese. Baf è un altro asso nella loro manica.
Fonte: il Manifesto, Lettera22
22 febbraio 2009