Arriva la MV Rachel Corrie?
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La MV Rachel Corrie, una delle otto navi della Freedom Flotilla, dovrebbe arrivare entro due giorni. Se la nave decidesse di forzare il blocco imposto da Israele, si porrà per il governo di Tel Aviv uno dei più pesanti rovelli diplomatici degli ultimi anni.
La notizia corre sul tweet, più che sul web. E l’ultima notizia parla di un nuovo capitolo che si potrebbe aprire in questa tristissima storia. Sei navi della Freedom Flotilla sono ora nel porto israeliano di Ashdod, ma chi ha seguito sin dall’inizio la storia di questo ennesimo viaggio umanitario verso Gaza sa che le navi coinvolte erano all’inizio otto. Una di queste, la MV Rachel Corrie, era in ritardo. Dovrebbe arrivare entro due giorni, dice un messaggio inviato da uno degli irlandesi che si trova sulla nave che prende il nome dalla pacifista americana uccisa da un bulldozer dell’esercito israeliano a Gaza. Il messaggio è stato inviato ad Ali Abunimah, blogger e vincitore dell’ultimo context sull’utente di twitter più seguito, e dice che coloro che si trovano a bordo hanno deciso di proseguire verso Gaza. Irlandesi e malaysiani, che hanno – dice il messaggio – il sostegno totale del governo asiatico.
Se fosse vero, se realmente la MV Rachel Corrie decidesse di proseguire e di forzare il blocco navale imposto da Israele, si porrà veramente per il governo di Tel Aviv uno dei più pesanti rovelli diplomatici degli ultimi anni. Concedere alla MV Rachel Corrie di forzare il blocco, o preparare un’altra azione di forza? La posizione del governo Netanyahu si farebbe ancor più debole, soprattutto in considerazione del fatto che l’operazione compiuta da Shayetet 13 e conclusasi in un bagno di sangue sulla Mavi Marmara, non è l’unica operazione di sicurezza fallita (in una maniera o in un”altra) durante un governo Netanyahu. Il più recente fallimento in termini d’immagine è stato l’assassinio di un leader di Hamas, Mabhouh, in un albergo di Dubai, operazione che ha scatenato – contro Israele – uno dei più pesanti contraccolpi nelle relazioni con paesi importanti come per esempio Gran Bretagna o Australia, dopo che si è scoperto che il Mossad aveva usato passaporti di quei paesi per coprire i propri agenti. A riandare indietro col tempo, c’è poi il fallito attentato compiuto sempre dal Mossad contro il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ad Amman nel settembre 1997, che portò – come boomerang – alla liberazione di Sheykh Ahmed Yassin da un carcere israeliano dove stava scontando l’ergastolo.
Quello scatenato dal sanguinoso assalto delle unità speciali israeliane in acque internazionali contro la Mavi Marmara è uno dei momenti più delicati nella storia diplomatica di Israele. Il livello di reazioni critiche, severe, dure, durissime è alto, persino inatteso, soprattutto da alcuni paesi, ma anche da parte di alcuni intellettuali. Cosa significa? Anzitutto quello che in molti, oggi, mi hanno detto, chiamando dall’Italia, o hanno scritto. Pochi si aspettavano che Israele reagisse con un uso della forza così sproporzionata verso i pacifisti della Mavi Marmara. Nessuno, a dire il vero. E nessuno si aspettava che anche in questo caso la risposta israeliana fosse solo securitaria, militare, e per niente politica. Come se la politica di Israele verso il conflitto fosse stata congelata per un tempo indefinito, sino a che la questione delle relazioni con gli Stati Uniti non si chiarisce.
I pacifisti della Freedom Flotilla, al contrario, hanno fatto politica. Così come non hanno fatto cancellerie e diplomazie, in questi ultimi anni. Chiedendo che Gaza non fosse dimenticata, non solo in quanto Gaza, ma in quanto patente violazione di qualsiasi regola umanitaria, quella che costringe un milione e mezzo di persone in un pezzo di terra di quaranta chilometri per dieci. In una situazione critica, umanitariamente insostenibile. I pacifisti hanno riempito – neanche tanto paradossalmente – il vuoto della politica su Gaza, e la politica internazionale si è trovata per l’ennesima volta sguarnita. Salvo poi, e questo sì paradossalmente, saltare sul carro delle richieste politiche dei pacifisti, con la posizione espressa da molti stati del consiglio di sicurezza dell’Onu – Gran Bretagna compresa – di chiedere con chiarezza la fine dell’embargo israeliano a Gaza.
Siamo alla svolta? Non si può ancora dire. Ma è certo che sia i pacifisti, sia la Turchia – che no na caso ai pacifisti del Free Gaza Movement si è avvicinata nell’ultima fase – hanno dato un colpo molto duro allo status quo, quello per il quale l’embargo attorno a Gaza è potuto andare avanti non solo per tre anni, ma almeno dal 2005, dal disimpegno deciso da Sharon e dall’ingresso nelle istituzioni palestinesi di Hamas. La fine del blocco forse s’avvicina, ma non sarà un processo così lineare. E i contraccolpi, in Medio Oriente, non sono mai indolori.
Finisco con il commento appena diffuso di Rob Malley, dell’International Crisis Group, un uomo che è stato attaccato più volte, negli anni recenti, da chi è stato molto miope.
Fonte: http://invisiblearabs.com
1 giugno 2010