Armi e aerei, lo shopping di Gheddafi
Antonella Rampino
Italia – Libia, la visita del colonnello. Domani la cena con Berlusconi e i vertici di alcune delle più importanti aziende italiane.
Di affari a un pranzo non si parla. E certo di affari non parleranno, a tavola lunedì sera col Colonnello e il Cavaliere, Alessandro Profumo di Unicredit, Paolo Scaroni di Eni, Pier Francesco Guarguaglini di Finmeccanica, Piero Gnudi di Enel, più altri e vari imprenditori, anche se la banca attende investimenti dei ricchissimi fondi sovrani di Tripoli, anche se l’ente nazionale petrolifero italiano ha intenzione di investire nell’ex Tripolitania 25 miliardi di dollari, tanto che il suo amministratore delegato definisce la Libia «una pupilla dei miei occhi». Non si parla di affari, e nemmeno sono previste a ridosso trattative per faccende di cui molto si sa, 21 imprese italiane (la lista è nelle mani del ministro alle infrastrutture Matteoli) coinvolte nel progetto (per ora è stata posta solo la prima pietra, da Berlusconi l’anno scorso) di un’autostrada lungo tutti i mille e 700 chilometri di coste libiche, investimento di 5 miliardi di euro come «risarcimento per crimini bellici». E poi, oltre a quasi il 5 per cento di Unicredit, un affarone per Terna: la costruzione della rete elettrica libica. Ma quello che ancora non si sa è che nelle agende di quegli imprenditori ci sarà presto anche dell’altro. E’ un dossier che sarà istruito a fine settembre, con un incontro prima tecnico, poi politico, poi nuovamente tecnico: stavolta, in materia di difesa. Secondo l’uso libico, sarà un vertice tra i due ministri della Difesa a sancire l’accordo politico. Poi, se tutto andrà bene, arriveranno le commesse. E difesa significa armamenti.
Non è una sorpresa, anche se certamente la cosa farà discutere e non solo in Italia. I francesi, per esempio, una volta liberate le infermiere bulgare per le quali tanto si erano spesi Sarkozy e signora, traendone prestigio diplomatico, accondiscesero a fornire al Colonnello un po’ di missili anticarro. Quanto all’Italia, ben prima di quella che già si chiama «la Gheddusconi s.p.a.», ovvero ben prima dell’accordo italo-libico del 2008, aveva già fornito (gennaio 2006) alle forze armate di Tripoli 10 elicotteri A109 Power dell’Augusta, un affare da 80 milioni di euro. Fornitura seguita da altre commesse, di certo incrementatesi dopo la firma del trattato che prevede, peraltro, all’articolo 20, «un forte ed ampio partneriato industriale nel settore della difesa e delle industrie militari». La giustificazione bilaterale è sempre quella della protezione dei confini libici, cui l’Italia di Berlusconi e Bossi tanto tiene per proteggersi a sua volta dalle ondate di migranti che pure dalle coste libiche continuano ad arrivare, e che in Libia vengono rispediti, tra le proteste dell’Onu, delle associazioni umanitarie, e talvolta persino di settori della Chiesa, visto che quei migranti vengono poi rinchiusi in veri e propri lager.
Non è una sorpresa perché poi è almeno un anno che si lavora a una maxi alleanza tra la Libyan Investment Authority e la Finmeccanica, ed è dal 2007 che esiste una joint venture con l’Agusta Westland: il fine di Tripoli, a medio termine, è quello di sostituire i vecchissimi Mig russi di cui dispone. E la più recente commessa di Finmeccanica, un contratto da un quarto di miliardo di dollari per macchinari di gestione della ferrovia che va da Sirte a Bengasi, è stata ottenuta appena prima di ferragosto attraverso le ferrovie russe. Chissà se la signora Albright, all’epoca segretario di Stato americano, nel 2000 immaginava dove avrebbe portato la derubricazione della Libia da «rougth state» a «state of concern», ovvero da «stato canaglia» a «stato preoccupante». Di certo, business as usual. Come dice Paolo Scaroni, «Gheddafi o Chavez, per me sono tutti belli, bravi e buoni. Perché? Perché sono tutti miei clienti».
Fonte: La Stampa
29 agosto 2010