Annapolis. Un assegno in bianco
Bernardo Valli
Il palestinese Mahmud Abbas e l’israeliano Ehud Olmert hanno firmato ieri ad Annapolis un assegno in bianco. Si sono impegnati ad avviare nelle prossime settimane dei negoziati di pace e a concluderli entro la fine del 2008.
IL palestinese Mahmud Abbas e l'israeliano Ehud Olmert hanno firmato ieri ad Annapolis un assegno in bianco. Si sono impegnati ad avviare nelle prossime settimane dei negoziati di pace e a concluderli entro la fine del 2008, vale a dire a realizzare per quella data le basi di una coesistenza tra lo Stato israeliano e lo Stato palestinese da creare. Quindi di fatto la nascita di quest'ultimo. Né l'uno né l'altro, né Abbas né Olmert, avevano in quel momento, né li avranno nel futuro scrutabile, i mezzi per mantenere l'impegno. Ne erano ben coscienti.
Entrambi hanno infatti esitato a sottoscrivere il documento fino a poco prima che il presidente americano ne annunciasse con solennità la firma. È stato un gesto avventato? Un bluff politico? Una decisione estorta da George W. Bush che forzando la sorte tenta di far coincidere la fine del suo secondo ed ultimo mandato con un successo che darebbe lustro alla sua deludente presidenza?
Penso che Abbas ed Olmert abbiano anzitutto compiuto un atto di ragione e di coraggio. Una volta arrivati ad Annapolis non avevano scelta. Ripartendo con un nulla di fatto avrebbero scatenato di nuovo, subito, i demoni annidati in quella Terra Santa che non cessa di essere una terra di morte e ingiustizia. Firmando l'impegno, pur non avendo i mezzi per mantenerlo, non li hanno certamente esorcizzati. Un'altra delusione, un altro fallimento farà versare altro sangue e appesantirà soprusi e umiliazioni. Ma a confortare Abbas e Olmert, e al tempo stesso a spingerli a sottoscrivere l'assegno in bianco, c'erano ad Annapolis i rappresentanti di quarantanove Stati sovrani e organizzazioni internazionali.
C'erano l'Europa, la Russia, la Lega araba. C'erano l'Arabia Saudita e la Siria, insieme a Israele e alla Palestina. Uno spettacolo raro. Bisogna riconoscere che Condoleezza Rice ha fatto le cose in grande. Ha capito che la debolezza di Olmert e di Abbas doveva essere compensata da quell'assemblea internazionale, la quale doveva funzionare in qualche modo da garante. E infatti essa ha avuto questa funzione politica: ha garantito con la sua presenza l'impegno assunto dal leader palestinese e dal primo ministro israeliano che non avevano i mezzi per assumerlo.
È qualcosa di molto simile a una santa alleanza che gli Stati Uniti sono riusciti a raccogliere ad Annapolis. Una santa alleanza anti-iraniana. L'avversione per l'Iran sciita ha mobilitato i paesi arabi sunniti, in particolare l'Arabia Saudita, preoccupati di vedere gli eredi di Khomeini nella veste di campioni della causa palestinese, oltre che candidati all'arma nucleare.
Risale al 2002 la risoluzione della Lega Araba in cui si contempla il riconoscimento di Israele in cambio della nascita di uno Stato palestinese. Condoleezza Rice ha acciuffato quel filo e ha saputo tessere una situazione eccezionale. Dopo uno sguardo all'assemblea di nazioni raccolta ad Annapolis, Abbas e Olmert hanno sottoscritto il documento che dovrebbe mettere fine a sette anni di paralisi dei negoziati di pace.
Quello che hanno firmato è un assegno in bianco perché né l'uno né l'altro hanno oggi la forza per condurre trattative che implicano enormi rinunce. Ehud Olmert è un primo ministro debole. Non solo impigliato personalmente in fastidiose questioni giudiziarie, ma anche contestato in seno alla sua coalizione di governo. I sondaggi d'opinione non gli lasciano scampo.
In concreto ha soprattutto due enormi ostacoli da superare: l'opposizione dell'esercito, garante della sicurezza e quindi contrario a un ritiro dai territori occupati che, stando ai militari, potrebbe metterla in pericolo; e l'opposizione delle centinaia di migliaia di coloni (all'incirca mezzo milione, tra la zona di Gerusalemme e la Cisgiordania), che rifiutano di evacuare anche gli insediamenti ritenuti illegali dalle stesse autorità israeliane. E dovrebbero essere proprio i militari a sloggiarli. Senza contare l'inevitabile rinuncia a una parte di Gerusalemme, da tempo proclamata dalla Knesset capitale irrinunciabile dello Stato ebraico. Questi ostacoli, sommariamente riassunti, che Olmert deve superare in Israele, illustrano quelli che rischiano di paralizzare Abbas. Il quale non gode neppure lui di un grande prestigio in Palestina. Una Palestina frantumata dalla secessione di Gaza, controllata da Hamas. Il movimento islamico che rifiuta ogni concessione a Israele e può facilmente approfittare dei cedimenti del moderato e laico capo di Al Fatah.
Il documento firmato in extremis non precisa i problemi che i negoziatori devono affrontare. Disegna soltanto la cornice entro i quali essi devono svolgersi. La decisione è saggia. La vaghezza era indispensabile. Ma rivela quanto sia fragile il progetto. Anche gli accordi di Oslo, nel 1993, lasciarono aperti i punti al momento irrisolvibili, pensando che col tempo sarebbe stato più facile affrontarli. Tutto però fallì.
Esplosero due intifada e tanti altri drammi. Ma il Medio Oriente nel frattempo è cambiato. L'emergere della minaccia iraniana ha creato nuovi schieramenti. Nuove alleanze di fatto. E vale l'insegnamento della "scuola del cimento": provando e riprovando. In questo caso con il coraggio e la ragione di due personaggi deboli, con alle spalle una santa alleanza, che era impensabile quando Rabin e Arafat, firmarono pure loro, quattordici anni fa, un assegno in bianco, rimasto tale.
Fonte: Repubblica
28/11/2007