Affondo talebano al cuore di Kabul
Giuliano Battiston
Dopo gli attentati delle settimane scorse all’aeroporto e alla Corte di giustizia, i turbanti neri riescono a infiltrarsi nel quartiere più protetto della capitale. Un successo simbolico.
I Talebani affondano il colpo, pesantemente: dopo gli attentati delle settimane scorse all’aeroporto di Kabul e alla Corte di giustizia, riescono a infiltrarsi nel cuore politico della capitale afghana. Ieri mattina infatti, intorno alle 6.30 locali (le 9 in Italia), un gruppo di guerriglieri ha attaccato il distretto di Shash Darak, quello che forse è il quartiere più protetto di tutto l’Afghanistan, presidiato dalle forze di sicurezza, diviso dal resto della città da alte mura di cemento e controllato da check point e presidi militari. L’attacco è avvenuto nell’area che comprende il palazzo presidenziale di Hamid Karzai, il quartier generale della Nato, il ministero della Difesa, l’ambasciata degli Stati Uniti e l’ex hotel Ariana, che oggi ospita i servizi segreti della Cia.
Sembra che fosse proprio questo, e non il palazzo presidenziale, l’obiettivo primario dei Talebani. Sul sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan, i turbanti neri da ore fanno campeggiare una foto che mostra il fumo nero che si alza dall’ex hotel Ariana, immagine del colpo inferto ai nemici americani. Nella rivendicazione, il solito portavoce Zabihullah Mujahidid loda il coraggio degli otto guerriglieri provenienti dalle province di Wardak, Paktika, Paktia, Khost e Kabul. Secondo la sua ricostruzione, gli assalitori, armati con fucili, RPG, granate ed esplosivi, avrebbero prima fatto esplodere un’autobomba all’ingresso dell’hotel Ariana, per poi entrare nell’edificio e ingaggiare uno scontro a fuoco con alcuni contractor e con gli agenti americani. Nello stesso tempo, un’altra auto-bomba sarebbe esplosa all’ingresso orientale del palazzo presidenziale. Secondo il generale Mohammad Ayub Salangi, a capo della polizia di Kabul, i Talebani avrebbero superato un primo checkpoint a bordo di un Suv, con documenti falsi. Al secondo controllo sarebbero stati fermati dalle forze di sicurezza. Alcuni di loro sarebbero allora scesi dal veicolo, che veniva fatto saltare per aria. Gli otto assalitori sono tutti morti. Secondo il ministero degli Interni, sarebbero rimasti uccisi anche 3 membri delle guardie di sicurezza, mentre i Talebani rivendicano l’uccisione di diversi agenti statunitensi.
Fin qui la cronaca. Sul fronte delle reazioni politiche, alla soddisfazione sbandierata dai turbanti neri si contrappone la dura condanna degli americani. L’ambasciatore degli Stati Uniti a Kabul, James Cunningham, ha ricordato che “tutti gli assalitori sono stati uccisi e non sono riusciti a raggiungere il loro scopo. Ciò dimostra ancora una volta la futilità degli sforzi dei Talebani di usare la violenza e il terrore per raggiungere i loro obiettivi”. Cunningham ha forse ragione sul piano strettamente militare. Non su quello simbolico, però. Su questo piano, l’attacco dei Talebani è infatti pienamente riuscito. E segue una logica adottata ormai da molto tempo: colpire obiettivi dall’alto valore simbolico, prima ancora che dal valore strategico-militare. Ciò significa destinare a morte certa i guerriglieri. Ma significa anche ottenere l’attenzione mediatica internazionale, mandare un segnale agli afghani e dimostrare di poter colpire dovunque, anche nel cuore politico dell’Afghanistan sotto occupazione. Quello dei seguaci del mullah Omar è un attacco riuscito anche sotto il profilo della tempistica: è avvenuto infatti il giorno dopo l’incontro tra il presidente Karzai e l’inviato speciale americano per l’Afghanistan e il Pakistan, James Dobbins. E poche ore prima che lo stesso Karzai tenesse una conferenza stampa sul negoziato di pace, proprio con Dobbins, dicono in molti. Quella conferenza Karzai non l’ha più tenuta. I giornalisti che ieri mattina aspettavano di incontrarlo al palazzo presidenziale hanno dovuto nascondersi dai colpi dei guerriglieri. Se fino a ieri mattina era Karzai a poter dettare l’agenda dei prossimi giorni, a poter condizionare il dibattito mediatico sul processo di pace, con l’attacco al cuore di Kabul i Talebani riprendono la palla in mano. E mandano un messaggio molto chiaro.
Lo stesso messaggio che Mohammad Sohail Shaheen, il portavoce dell’ufficio politico della guerriglia a Doha, ha spiegato in un’intervista televisiva di tre giorni fa ad Al Jazeera: all’apertura politica continueremo ad affiancare la lotta militare sul campo, fino a quando le truppe straniere saranno sul territorio afghano. A meno che gli americani non accettino le condizioni per quel cessate il fuoco che tutta la popolazione si aspetta: il rilascio dei prigionieri dal carcere di Guantanamo. Su questo, le negoziazioni sono appena cominciate. Per i Talebani l’attacco di ieri è un modo per chiedere di accelerare il passo.
Fonte: www.lettera22.it
26 giugno 2013