A ognuno le proprie responsabilità
AGI Mondo ONG
Il deterioramento della situazione in Afghanistan non significa che le ong non possano continuare a lavorare. Le riflessioni di Nino Sergi, segretario generale di Intersos.
Kandahar, Helmand, Kost, Paktya, Nangarhar, Kunar, Laghman, Wardak, Kabul, Baghlan, Balkh, Sar-y-Pul, Faryab e molte altre sono le province dell’Afghanistan in cui sono intervenute le Ong italiane a sostegno delle popolazioni locali. Un lavoro enorme: distribuzione di cibo, sementi e beni di prima necessità, allestimento di campi di accoglienza per profughi, assistenza ai più vulnerabili, ricostruzione di scuole, di centri ospedalieri e ambulatoriali, di reti idriche, pozzi, di abitazioni per i rifugiati rimpatriati, iniziative con le donne, centri di formazione artigianale, sviluppo agricolo, sminamento. E dal 2007, con l’impegno del governo italiano a garantire una visibile distinzione tra la cooperazione civile e quella militare, Cesvi, Gvc e Intersos sono impegnate in un’altra sfida: lavorare nell’area di Herat, tra le più turbolente del Paese. Le ong sono convinte che non è con la sola presenza militare che “si vince” in Afghanistan, ma con una strategia che abbia come primo obiettivo la risposta alle necessità e alle aspettative degli afgani, che continuano a essere disattese. Nove decimi delle risorse sono state impiegate per l’azione militare, peraltro senza risultati tangibili, mentre solo un decimo per l’azione di ricostruzione e di sviluppo. Eppure ci si ostina a dire, in modo sfacciato, che i militari sono in Afghanistan “per ricostruire”. Pare che non lo si voglia capire. Non si voglia, appunto, perché è invece a tutti evidente che se non si cambia radicalmente la strategia finora adottata, non saranno solo i Taliban a cacciare gli stranieri, ma tutto il popolo afgano.
Una presenza ingombrante
La sicurezza peggiora. Le ong ne sono consapevoli giacché periodicamente analizzano e valutano la situazione; redigono documenti, avanzano proposte che però trovano poco ascolto e mai sono occasione di confronto. In cambio ricevono messaggi dal diplomatico di turno, che, non volendo grane, tenta di affrancarsi di una presenza che considera ingombrante. Non è la prima volta: le ong sanno quindi come difendere la loro dignità e indipendenza. Il deterioramento della situazione in Afghanistan, non significa che le ong non possano continuare a lavorare. Significa invece che devono essere messe a punto misure di sicurezza adeguate. Le ong hanno sempre valutato i rischi per i propri operatori nei diversi contesti, fino anche a decidere di ritirarsi, come è stato in Iraq e in Somalia. Per ora non ritengono di doverlo fare in Afghanistan. E, comunque, è il personale afgano a rischiare molto di più del personale internazionale, perché è percepito come “agente” di un disegno politico-militare straniero e, quindi, non indipendente né neutrale. Ecco il punto: la sicurezza delle ong è legata alla chiara percezione dell’umanità, neutralità e imparzialità dell’aiuto e alla possibilità, ove attuabile, di interloquire con tutte le parti in conflitto. Negare o limitare queste specificità significa far cadere quello scudo di sicurezza che ha garantito e continua a garantire, salvo casi di pura criminalità, l’azione umanitaria. Purtroppo, in Afghanistan c’è una tendenza a considerare le Ong e l’azione umanitaria come funzionali alla strategia militare del “Clear, Hold, Build”. E questo arbitrio non può essere accettato.
La parola al Parlamento
Riteniamo indispensabile, a questo punto, un serio approfondimento. Lo proponiamo al ministero degli Esteri e allo Stato Maggiore della Difesa, perché su questo tema -le modalità della presenza italiana, nelle sue diverse componenti, in quei contesti- si dicono cose diverse, spesso dettate da convenienze politiche. Il decreto di proroga delle Missioni internazionali è ora al Senato: è l’occasione perché questi aspetti entrino, con altrettanta serietà, nel dibattito parlamentare.
Nino Sergi è il segretario generale di Intersos
Fonte: OngAgiMondo
Editoriale Febbraio 2009