Sul molo di Lampedusa a contemplare la morte


Domenico Quirico


Esseri umani buttati come immondizia. Ieri fuggivano dall’oppressione, oggi dalla fame.


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Esiste per ogni uomo un luogo dove gli è impossibile divertirsi, dimenticare la propria vita. Dove come a Dodoma gli alberi, agitati dal vento, non profetizzano, non è il futuro che conoscono ma il passato e ricordano. Dove non possiamo giudicare o condannare; semplicemente lì abbiamo visto, sappiamo. Per me questo luogo è Lampedusa.  

Non sapevo, prima di arrivare qui, che esistessero esseri buttati via come l’immondizia quando non sono ancora morti, che nessuno vuole soccorrere e che muoiono a poco a poco stremati dai mali disfa cendosi lentamente all’aria aperta.

Una scoperta casuale, dopo un viaggio in fondo al quale c’era questa isola. Qui non potrei mai, come gli ultimi turisti abbronzati che ciabattavano ieri nel dolce imbrunire d’autunno, andare al porto «a guardare i morti», dove mai potrei immergermi nel mare. Lampedusa: la terra qui non ama gli alberi e neppure gli uomini li amano, la terra secca e dura non li nutre, ma il mare. Qui c’è una mia storia scritta nel mare, indecifrabile per i non iniziati.  

Passo, proprio di fronte al molo, davanti al cimitero dei relitti, le barcacce dei «clandestini»; nessuno ha il coraggio di portarle via, distruggerle, i colori un po’ più stinti di due anni fa. La mia barca non c’è perché è affondata, come quella di questi africani, dei morti di ora. Due anni fa sono sbarcato su questo molo: io ero uno di loro, da Zarzis, in Tunisia, a Lampedusa, venti e più ore di mare e poi il naufragio e la morte per fortuna, per la mano fraterna di uomini coraggiosi, per noi soltanto sfiorata. Anche allora se il mondo fosse stato appena creato per ospitare gli angeli, su quel mondo non avrebbe potuto albeggiare giorno più bello.

Cammino sul molo, quel molo, in mezzo ai curiosi, alle televisioni che raccontano, che cercano di spiegare. I miei compagni naufraghi due anni fa scesero a terra avvolti in fogli di plastica luccicanti come corazze. Ora sfilano sacchi neri dei morti. Ho già descritto il luccichio, al sole d’autunno, delle tegole e delle rocce, un paesaggio palpitante, fraterno dove il vento al crepuscolo è il soffio, vivo e caldo, di una creatura di Dio. Qui ho imparato che soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla morte e che scopre di essere improvvisamente salvo. Qualcuno, pescatori dagli occhi scuri e lustri come olive nere, si ricorda ancora di me: «Tu sei vivo…».

I miei centododici compagni; di pochi ricordo ancora il nome, in mare schiacciati sul ponte per guadagnare spazio, lo spazio costa e rende ai passeur, assediati dalle onde non si parla. Chi si ricorderà dei nomi di questi morti? Visi troppo evanescenti, ahimè, perché un solo tratto ne sia riconoscibile si stagliano nella curva degli scafi, si muovono come le foglie. Vorrei che in me, con me risalissero l’abisso, potessero respirare all’aria aperta anche questi nuovi morti. Perché raccontare non può essere una resurrezione ? Perché la storie, le storie che scriveremo domani sui giornali non possono far rivivere il loro intimo, le vite segrete dei loro cuori?

Due anni fa mi imbarcai per capire, per tentare di capire. Per la maggior parte di questi uomini, al contrario di quanto avviene a noi, morire è un semplice incidente: inciampano e scompaiono nella trappola come bestie sorprese. Tunisini ieri, eritrei somali siriani oggi, durante una intera vita hanno contemplato la morte, immersi fin dall’infanzia in quella voragine hanno sempre votato il loro cuore e tutti se stessi alla notte.  

No, mi sbaglio! Nessuna di queste tragedie in fondo si assomiglia, nessuna disperazione, nessun dolore è uguale ad un altro dolore. Due anni fa i miei compagni erano tutti ragazzi, una generazione che aveva vinto una rivoluzione e affrontava la morte in mare per venire a vedere, ora che erano liberi, il mondo, l’altro mondo il loro futuro possibile. Oggi, oggi sono la miseria, la fame, la malora, la guerra, la rivoluzione perduta: sono il campo ucciso dalla siccità, la roba rubata dal miliziano o dal governo, la mano alzata del fanatico. Una forza più grande e più tremenda, misteriosa come lo stesso volto della vita, che talvolta ha lo sguardo agghiacciate del deserto e talvolta quello dolce del mare, ha mosso questi uomini al di là dell’argine della paura, ha insegnato loro a fuggire, anche se il pericolo è mortale e che un filo sottilissimo divide la disperazione dalla speranza e non è dato agli uomini di conoscerlo. Aggrappati a quel filo che è più forte del cavo che regge l’ancora delle loro barche disgraziate, afferrati con le mani e coi denti a quel filo che si chiama volontà di resistere, di continuare, di sperare, ed è forse la fiducia in Dio nel loro Dio, sono stati saldi su quel fasciame marcio fino a quando il mare o il fuoco non hanno consumato la loro speranza. In fondo al loro cammino c’è invece un mondo che porta in se la morale della diseguaglianza.  

Due anni fa ho accompagnato per un breve tratto l’anabasi di un popolo che non è segnato nei libri di geografia o negli elenchi dell’Onu, ma che cresce ogni giorno, il popolo dei migranti. Nessuno li può contare, né i vivi né i morti. E’ un popolo che conosce la pazienza per cui le attese si spianano e si allargano in una apparente eternità. E’ in perenne cammino, scavalca i deserti, non ha mai visto il mare, eppure sale su barche sfasciate e guarda in faccia le tempeste. Il mare è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, ed è la chiave di tutto. Che sappiamo noi di quando sono partiti, se non eravamo con loro? I miei compagni mi hanno raccontato che ogni distacco è uno scoppio di pianto misto di gioia, per la speranza che si imbocca, e di dolore per le cose che si abbandonano.

Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, ad ogni tappa, per settimane per mesi per anni, commossi dal cielo stellato, dal silenzio, dal ricordo rassegnato dei morti, dalla fuga del tempo, dall’empito del cuore. Li ho visti sparite a Gao, inghiottiti dai camion, grandi camion delle miniere, dei passeur. Nei loro occhi c’era una dolcezza segreta una nota tenera e affranta che io, noi per cui il viaggio non è che una galleria da attraversare in fretta, non potevamo capire. Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire.

Fonte: www.lastampa.it
4 ottobre 2013

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