Sul futuro del giornalismo o si comincia a ragionare o si muore
Enzo Nucci
Per radiografare lo stato di salute del giornalismo italiano è necessario ricorrere ad un aforisma di Karl Kraus: “I giornali hanno con la vita all’incirca lo stesso rapporto che le cartomanti hanno con la metafisica”.
Per radiografare lo stato di salute del giornalismo italiano è necessario ricorrere ad un aforisma di Karl Kraus: “I giornali hanno con la vita all’incirca lo stesso rapporto che le cartomanti hanno con la metafisica”. Insomma il malato è forse più grave di quello indicato con la formula del “giornalista postino” che già suggerisce segni di involontaria vitalità. La mia giurassica memoria infatti corre a quei signori in divisa blu, con una spalla stritolata sotto l’impossibile peso di una borsa traboccante di lettere e pacchi. Visione oggi sostituita da svettanti precari a bordo di motorini (riconoscibili per la casacca catarifrangente) che a cottimo si limitano a lasciare nelle nostre cassette l’avviso che c’è qualcosa da ritirare in un lontano ufficio periferico, ulteriore segno dello sfascio di un paese che ci voleva far credere che le privatizzazioni servissero a migliorare il servizio.
Il dibattito sul videomessaggio di Berlusconi possa almeno servire ad aprire il confronto nella categoria per capire dove va questa disastrata barca dell’informazione italiana. Da troppi anni siamo concentrati nell’osservazione statica del nostro ombelico, incapaci di alzare lo sguardo per guardarci intorno. Ma bisogna fare presto perché il sonno della ragione genera mostri, come ammonisce il dipinto di Francisco Goya.
A me sembra che i giornalisti si stiano trasformando sempre più nella Mano. Ricordate? Era uno dei componenti della Famiglia Addams: appariva nella omonima serie dei telefilms per porgere il telefono o altri oggetti, sbucando inaspettatamente da una serie di scatole presenti in ogni stanza della casa. Oggi (mutatis mutandis) la Mano regge il microfono al politico di turno per carpirne una dichiarazione (o meglio “una battuta” come dicono i colleghi: ma allora ha ragione il Cavaliere che siamo nel teatrino della politica?). L’unico effetto è di “trasformare lo squittio di un topolino nel ruggito di un leone” come scriveva il caustico Ambose Bierce. In realtà i videomessaggi di tutti i politici (nessuno escluso) vanno in onda quotidianamente: basta consultare i siti web che mostrano i monologhi di parlamentari e leader (comprese le “ripartenze” in caso di errore) mentre Mani diligenti reggono i microfoni. Queste scenette comiche sono diventate tra le più cliccate della rete. Ma ovviamente non è un problema solo del giornalismo televisivo, anzi le Mani nella carta stampata operano anche con maggiore meticolosità per farci conoscere l’origine del soprannome Pitonessa ed affini: peccato che non esista più la bella rubrica “e chi se ne frega” del settimanale “Cuore”. Certo, siamo lontani da ciò che auspicava Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, quando affermava : “le notizie sono quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità”.
In questi giorni si discute della morte dei “talk show”, programmi fotocopia in onda su tutte le reti con la stessa compagnia di giro di politici, giornalisti, esperti che costano poco ed in passato davano buoni risultati di audience. E si grida al “miracolo” per i bei reportage di “Presa diretta” di Riccardo Iacona o “Il viaggio nell’Italia che cambia” di Edoardo Camurri, riedizione dell’omonima inchiesta di 50 anni fa di Ugo Zatterin. Ma Iacona e Camurri in fondo fanno solo il loro lavoro: mostrano quello che vedono girando in un paese sull’orlo del baratro. E dobbiamo ringraziare Iacona per sapere che in Portogallo, Spagna, Grecia (ma anche in Italia) c’è chi dice “no” alle imposizioni della troika.
Le “periferie del mondo” da cui proviene anche Papa Francesco non hanno dignità di accesso all’informazione. Si parla del conflitto in Siria perché gli interessi occidentali sono toccati da vicino ma si dimentica che nella regione del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) si combatte da 20 anni una guerra a “bassa intensità” che ha già fatto 6 milioni di morti per il controllo delle materie prime su cui si regge l’economia del mondo sviluppato. Giusto che si parli di campi profughi in Africa e altrove ma sarebbe logico vederli innanzitutto nei telegiornali e negli spazi giornalistici e non solo in occasione delle visite dei vip. L’ informazione sul mondo è molto appetita dal pubblico italiano, al contrario di quanto affermano gli auto-nominati maestri nell’intercettazione dei gusti del pubblico. Lo dimostra ad esempio il successo ventennale in edicola di un settimanale geniale come “L’internazionale”. Solo conoscendo le “periferie” del mondo (ma Africa, Asia, America del Sud, sono da considerare periferie?) potremo capire le ragioni dei migranti che sbarcano in Italia ma anche degli italiani (in numero crescente) che abbandonano l’ex Belpaese per cercare fortuna all’estero.
Insomma sul futuro del giornalismo o si comincia a ragionare o si muore.
Ma c’è una terza via. Quella che quotidianamente ci indica Mauro Fortini, l’instancabile presenzialista tv, quel cinquantenne che fa capolino in ogni edizione dei tg facendo finta di scrivere improbabili appunti su un block notes o registrare con il cellulare le dichiarazioni dei politici. Lui, poveraccio, non è un postino precario e nemmeno una Mano sottopagata. E’ un “volontario” dell’incursione televisiva che fa la guardia al bidone della nostra politica per 365 giorni all’anno, senza percepire un centesimo. Modesta proposta: lo iscriviamo d’ufficio all’Ordine dei Giornalisti (almeno come pubblicista) per meriti conquistati sul campo?
Fonte: www.articolo21.org
23 settembre 2013