Spingono il Libano verso la guerra civile


Michele Giorgio, Il Manifesto


Il duplice attentato nella Tripoli sunnita potrebbe essere stato organizzato dalle stesse mani che hanno compiuto quello di una settimana fa contro gli sciiti a sud di Beirut.


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Quarantadue morti e oltre 500 feriti ieri a Tripoli, roccaforte del sunnismo radicale. Ventisette morti e 300 feriti la scorsa settimana a Dahiyeh, a sud di Beirut, la «fortezza» del movimento sciita Hezbollah. Sono i peggiori attentati subiti dal Libano dalla guerra civile che ha devastato il Paese dei cedri tra il 1975 e il 1990. Peggiori persino di quello sanguinoso che il 14 aprile 2005, sul lungomare di Beirut, uccise l’ex premier Rafiq Hariri. Qualcuno parla di inizio di un ciclo di attacchi e vendette tra due parti che si fronteggiano politicamente e sempre più spesso anche con le armi nella vicina Siria. Eppure tra le tante ipotesi quella che sia stata la stessa mano a confezionare le bombe che in pochi giorni hanno fatto strage di una sessantina di civili libanesi appare la più concreta. Qualcuno lavora nell’ombra per far precipitare il Libano nel baratro di una nuova guerra civile, per realizzare interessi strategici regionali paralleli quelli che oggi sono gioco in Siria.

Qualcuno che, forse, due giorni fa ha lanciato quattro razzi verso Israele per innescare la reazione di Tel Aviv che ieri all’alba ha colpito con la sua aviazione nei pressi di Naameh, a sud di Beirut, il quartier generale dei palestinesi (filo-siriani) del Fronte popolare – Comando Generale. Nonostante la rivendicazione dell’attacco fosse giunta dalle Brigate Abdellah Azzam, uno dei gruppi della galassia qaedista in forte espansione tra Libano e Siria. E non è passata inosservata anche la determinazione con la quale, nelle stesse ore, il governo israeliano ha accusato la Siria di Assad di aver fatto uso di armi chimiche alla periferia di Damasco.

Gli attentati di ieri sono avvenuti nei pressi di due moschee sunnite, al termine della preghiera del venerdì. La prima autobomba è esplosa vicino alla moschea di Taqwa, non lontana dalla casa del primo ministro uscente Najib Mikati. Si tratta dell’usuale luogo di preghiera per Salem Rafei, un religioso salafita acceso oppositore di Hezbollah. Non è chiaro se si trovasse all’interno della moschea ma non sembra sia rimasto coinvolto. La seconda esplosione ha scosso, cinque minuti dopo, la moschea di Salam, nella zona portuale, non lontano dalla casa dell’ex capo della polizia Ashraf Rifi.

Le emittenti libanesi hanno mostrato alte colonne di fumo, veicoli in fiamme, corpi dilaniati ed edifici danneggiati e anneriti. Poco dopo gruppi di miliziani sunniti sono scesi in strada sparando. L’Esercito ha subito inviato rinforzi per evitare il peggio, in una città già segnata da un conflitto armato intermittente che vede di fronte gli alawiti di Jabal Mohsen e i sunniti di Bab Tabbaneh e che ha fatto sino ad oggi decine di morti. Una notte carica di tensione e insidie è scesa ieri sera sulla città.

Hezbollah ha immediatamente condannato gli attentati per smentire sul nascere le voci che volevano un suo coinvolgimento: una vendetta per l’autobomba di una settimana fa a Beirut. Per il movimento sciita il duplice attentato di Tripoli «fa parte di un piano criminale finalizzato a diffondere il seme della discordia tra i libanesi e trascinarli in una guerra nel nome del confessionalismo e del settarismo… è un disegno internazionale per spaccare la regione e diffondervi sangue e fuoco… un progetto finalizzato a trascinare il Libano nel caos e raggiungere gli obiettivi del nemico sionista e di chi lo sostiene». «Esprimiamo solidarietà – ha scritto Hezbollah nel suo comunicato – per i nostri fratelli di Tripoli in questo momento tragico, in cui sangue innocente viene versato senza ragione».

Tra i sunniti più radicali queste parole di condanna di Hezbollah sono cadute nel vuoto. Troppo forte è il rancore tra le due parti, per lasciare spazi al sentimento di unità nazionale al quale hanno fatto appello il primo ministro Mikati, il presidente Michel Suleiman e varie personalità politiche.

D’altra parte occorre essere ciechi per non vedere che la guerra civile, di fatto, è già in corso in Libano, dove peraltro si scontrano gli interessi strategici di Iran e Arabia saudita. Non si combatte ancora con le armi perché Hezbollah è militarmente troppo forte e nessuna fazione avversa può solo lontanamente immaginare di poterlo affrontare con qualche speranza di vincere. Il Paese però è frantumato con ampi settori di Tripoli schierati contro i concittadini alawiti e che appoggiano in ogni modo i ribelli siriani. La Valle della Bekaa, ad eccezione della roccaforte sunnita di Arsal, è la retrovia a sostegno dei guerriglieri di Hezbollah che combattono in Siria e teatro di frequenti attentati e attacchi alla milizia sciita e obiettivo di lanci di razzi dalla Siria (quasi sempre sulla cittadina di Hermel).

Persino il trasporto aereo sta per spaccarsi in due. I leader sunniti, non solo quelli radicali, sarebbero sul punto di riaprire al traffico commerciale l’aeroporto di Qlaiaat, vicino ad Akkar nel nord-est del Libano, in modo da non usare più lo scalo internazionale di Beirut, sotto il controllo di Hezbollah. Il 14 agosto era previsto il primo volo ufficiale bloccato all’ultimo momento solo per l’opposizione dei ministri del movimento sciita e dei partiti alleati. Qlaiaat, sospettano molti, diventerà «l’aeroporto dei sunniti» e sarà usato per facilitare il trasferimento di armi e munizioni all’opposizione siriana.

Fonte: http://nena-news.globalist.it
24 Agosto 2013

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