Libia, il fuoco dell’estremismo sulla primavera araba
Lucio Caracciolo
La strana alleanza tra Stati Uniti e Fratelli musulmani, frutto imprevisto delle rivolte contro i dittatori, è entrata nel mirino dei jihadisti. In Libia non c’è pace, in Egitto i salafiti fanno proseliti. Obama in questa fase ha un solo obiettivo: la rielezione.
L’obiettivo strategico dei jihadisti che hanno assassinato l’ambasciatore americano a Tripoli è la strana ma efficiente alleanza Stati Uniti-Fratelli musulmani emersa dalla “primavera araba”. L’identico bersaglio dei salafiti che nelle stesse ore si sono scatenati contro la sede diplomatica Usa al Cairo per protestare contro il provocatorio film su Maometto prodotto da un oscuro uomo d’affari israelo-americano, sponsorizzato da donatori ebrei, cristiani copti egiziani e ultrareazionari protestanti americani. La coincidenza con l’anniversario dell’11 settembre e con l’avvio della fase decisiva della campagna per la Casa Bianca accentua l’eco di eventi già traumatici.
Poco importa se la coincidenza fra la diffusione in Internet di alcuni estratti del film antimaomettano, l’assassinio del diplomatico americano e le proteste nella capitale egiziana – destinate a diffondersi nel vasto arcipelago islamico – sia o meno frutto di premeditazione. Contano gli effetti, non solo in Nordafrica ma in tutto il Grande Medio Oriente. È troppo presto per stabilirli, non per ragionare sulla dinamica degli eventi in Libia e in Egitto, come sul modo in cui vorrà reagire l’America.
Partiamo dalla Libia. Il regime di Gheddafi è crollato, ma non ne è nato uno nuovo. Anzi, nelle ultime settimane la violenza si è riaccesa, non solo nel profondo Sud, dove ancora si asserragliano i reduci del colonnello. Il governo legittimato dal voto è tuttora in gestazione, mentre le milizie che hanno vinto la guerra civile non intendono disarmare. E spesso si sparano addosso.
Recentemente a Tripoli sono tornate ad esplodere le autobomba. I salafiti – musulmani radicali – hanno dato l’assalto a siti storici di confraternite sufi, vocazionalmente pacifiche e moderate. In Cirenaica si concentrano i jihadisti, alcuni dei quali reduci dall’Iraq o pendolari da e per la Siria, tra i quali i responsabili della strage di Bengasi, probabilmente preparata da tempo. Presso Derna sono installati alcuni campi gestiti da qaidisti, sorvegliati dall’alto dai droni americani. Polizia ed esercito in ricostituzione non sono in grado di affrontarli. Le tribù locali girano al largo.
Alcuni osservatori occidentali preconizzano un nuovo Afghanistan alla nostra frontiera meridionale. Esagerano, probabilmente. Non più di quanto facciano i cantori della Libia democratica, che immaginano uno Stato libero e democratico dove invece regna l’anomia. Intanto i pallidi rappresentanti della “nuova Libia” accusano americani ed europei di averli abbandonati a loro stessi.
Quanto all’Egitto, è il modello dell’intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti. Dopo averli bollati per decenni come terroristi, Washington ha deciso di puntare sugli islamisti quali provvisori sostituti dei dittatori amici liquidati dalle rivolte, in assenza di alternative al caos permanente. I rivoluzionari filo-occidentali della prima ora si sono rivelati troppo deboli e divisi, un po’ come i dissidenti dell’Est dopo il crollo del Muro. Quanto ai militari egiziani, infiltrati dagli islamisti, hanno dovuto accettare l’inversione dei ruoli nel flessibile patto di non aggressione da tempo stipulato con i Fratelli: oggi a dettar legge sono questi ultimi, guidati dallo scaltro presidente Mohamed Morsi, mentre le gerarchie dell’esercito mordono il freno.
L’ala estremista dei salafiti mal sopporta però il nuovo regime, così come, sul fronte opposto, la corposa minoranza copta. Il successo ottenuto dal partito salafita alle elezioni (un quarto dei voti) indica che la corrente più radicale dell’islam egiziano è un fattore con cui i Fratelli – e i militari – devono fare i conti. Se il clima dovesse infiammarsi, per causa dell’ennesima provocazione dei crociati antimaomettani, e se la crisi economica dovesse inasprirsi, gli equilibri allestiti in questi mesi potrebbero saltare.
Sempre che non ci pensino gli israeliani, attaccando l’Iran a riazzerare l’intera partita mediorientale. Una mossa da roulette russa. Con i terroristi islamici che rialzano la testa, Gerusalemme potrebbe invocare una ragione in più per rovesciare il tavolo – e la mal digerita intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti.
E l’America? Mentre Romney lo accusa di debolezza verso i terroristi, Obama esibisce il suo leggendario sangue freddo. Salvo stupirsi per il fatto che l’attacco sia avvenuto “in un paese che abbiamo contribuito a liberare, in una città che abbiamo salvato dalla distruzione”. Questo per il pubblico. Senza troppo clamore, è scontato che droni Usa bombarderanno le basi jihadiste in Cirenaica e qualche effettivo o presunto caporione qaidista sarà liquidato in stile israeliano.
Di tutto ha bisogno Obama meno che di rimettere in discussione lo strombazzato successo contro al-Qaida, sigillato con lo scalpo di bin Laden – peraltro mai esibito. Ogni mossa del presidente, nelle prossime settimane, sarà unicamente calibrata sulla rielezione.
Purtroppo storia e cronaca confermano che raramente i fatti si conformano all’agenda della democrazia americana.
Fonte: Limes.it
13 settembre 2012