Disabili in Africa, nello "slum" una struttura di riabilitazione


Mauro Sarti


Inaugurato a Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi, il primo centro di terapia per chi ha problemi a camminare. In un giorno simbolico: l’inzio dell’anno che celebra il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Padre Kizito: “Anche qui, in prima linea, i diritti devono essere praticati”.


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Disabili in Africa, nello "slum" una struttura di riabilitazione

NAIROBI- Un centro di riabilitazione per persone disabili nella più grande baraccopoli di Nairobi. Una struttura di prima accoglienza, una palestra per la fisioterapia, una specie di ambulatorio per consulenze mediche e per gli ausili inaugurato proprio il giorno in cui si inizia a celebrare l’anno del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. E’ una festa in baraccopoli, ma sembra più una drammatica provocazone quella casetta bianca che padre Renato “Kizito” Sesana ha voluto realizzare come testimonianza proprio in mezzo a quelle precarie strutture di lamiera, alla sporcizia e alla violenza dello slum di Kibera, 800.000 persone ammassate come formiche, per molti la più grande baraccopoli dell’Africa: in cucina, in bella vista, è appeso un cartello con i dieci comandamenti della casa: “We must love everyone, no fighting, have table mannas…”. Basteranno le dieci regolette per fare ritrovare ai nuovi ospiti l’armonia e l’atmosfera di una struttura che vuole essere familiare? Pochi giorni fa a Ndugu-ndogo sono stati accolti i primi ragazzi disabili, dati loro dei consgli, iniziata una terapia fisica di recupero. Ma l’impresa è ardita. Qui, dove parlare di persone con disabilità, per usare la terminologia suggerita dall’Oms, sembra quasi un controsenso: a cosa serva una carrozza a ruote se non si riesce nemmeno a passare nel pertugio di una baracca? E se questa baracca non ha il pavimento? E il bagno, che nemmeno esiste? E i tutori per camminare come fanno a non affondare nel fango di sentieri dove scorrono le fogne all’aperto e che conducono, scoscesi, a catapecchie malconce costruite con gli ondulati in eternit?

E’ subito chiaro che a Kibera, Nairobi, Africa, parlare di integrazione delle persone disabili ha tutto un altro significato rispetto a quello che comunemente s’intende in occidente. “Siamo partiti da zero – racconta “Kizito” che con la comunità Koinonia ha deciso di iniziare a fare qualcosa anche per chi ha problemi a camminare, a spostarsi in baraccopoli – . ma bisognava iniziare. So che è una battaglia difficile, resa quasi impossibile dalle condiziooni di vita degli slum. Per ora abbiamo solo iniziato a fare circolare la voce, senza fare nulla di ufficiale: sono già decine le famiglie che ci hanno contattato…”.

Con Ndugu-Ndogo di Kibera, sono quattro le strutture di accoglienza per ragazze e ragazzi in difficoltà che Kizito ha già realizzato a Nairobi. Ultima quella di Kibera, lunedì 10 dicembre l’inaugurazione: in prima fila, con le loro t-shirt nere, le donne volontarie di “Kiscodep”, l’associazione del “Kibera slums community programme”. Applaudono “Kizito” e Flavio Lotti della Tavola della pace che, con l’inaugurazione della casa, hanno invitato al rispetto e alla promozione dei diritti umani. Prima di loro hanno parlato i responsabili delle associazioni locali: dan Caleb Omullo, presidente del “Kenian disabled action network” ha ricordato che spesso alla disabilità, a Nairobi, si va ad aggiungere il flagello dell’aids. Una sfida che sembra impossibile. Poi Kavin, giovanissimo, ha raccontato la sua storia. Giudith ha tremato al microfono, padre John o’Diege ha criticato quello che in Europa da tempo si chiama “aborto terapeutico”. Poi qualcuno sussurra che l’handicap, qui a Kibera, è solo disabilità fisica. Chi vive un disagio mentale, una debolezza psichica, non esce di casa. Resta nascosto nelle baracche. La sua presenza in casa è una vergogna: Nessuno se ne occupa. Nessuno sa come fare. “Ndugu-ndogo” nasce anche per questo, per dare una speranza a chi in baraccoppoli già fa fatica ad arrivare a sera, gente che vive di niente, e che vede la vita diventare ancora più difficile se alla infinita precarietà del fango e della sporcizia, si va ad aggiungere un ragazzo con problemi fisici o psichici.

“Tutti i bambini che hanno problemi a camminare, possono venire qui dalla prima settimana di gennaio e farsi registrare… Poi vedremo cosa fare, quale terapia cominciare”. L’appello di Kizito – poco prima erano stati letti dai ragazzi di Kibera i primi sei articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani – arriva che il sole picchia sulla testa in baraccoppoli. Le mamme applaudono, un po’ di telecamere e taccuini aperti (tutti giornalisti arrivati a Nairobi per partecipare alla conferenza internazionale su “Guerre e conflitti in Africa”) raccolgono la dignitosa e disperata testimonianza di queste donne abituate ad aspettarsi sempre troppo poco dalla vita. Perchè una baraccopoli non è vita, tanto più per una persona disabile: “Adesso abbiamo cominciato – conclude Kizito – poi vedremo… L’importante era inziare a dare un altro servizio concreto, un altro segnale che anche per chi vive in questo posto è possibile chiedere il rispetto dei diritti umani… Esigere che i diritti diventino pratica e consapevolezza. Sì, anche qui, in prima linea”.

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