“Gettati in mare per placare le onde”. Sacrifici umani sulla barca maledetta


Francesco Grignetti


I migranti: un rito propiziatorio, il comandante ha sacrificato i nostri compagni. Gli altri sono arrivati sull’isola dopo il viaggio durato 40 ore.


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"Gettati in mare per placare le onde". Sacrifici umani sulla barca maledetta

Io non so perché è successo… Era buio, la barca piena di gente, le onde alte… A un certo punto il comandante ha cominciato a urlare, e indicava questo e quello… Li hanno presi e li hanno buttati in mare… Tutti gridavamo… Non so perché è successo, forse perché il comandante voleva calmare il mare. E poi siamo andati avanti…». Racconti dell’orrore. I mediatori culturali di «Save the children» ne hanno sentiti tanti. Troppi. Ma quando la voce del ragazzino africano ha raccontato questa storia davvero non volevano crederci. È sembrato inverosimile. Un rito propiziatorio nel cuore del Mediterraneo? «Sì, ecco, un rito propiziatorio». E però se fosse stata soltanto la voce di un giovanissimo profugo, in fuga dall’Africa nera, e magari in fuga anche da se stesso, la vicenda del rito propiziatorio sarebbe potuta essere un’allucinazione. Invece no. Dopo di lui, un altro, e poi un altro ancora, e infine un quarto testimone. Ora quei racconti daranno il via a una indagine.

La traversata dell’orrore è terminata con uno sbarco il 1 maggio a Lampedusa. I profughi erano partiti da Tripoli. Uno dei soliti barconi riattati per l’occasione e stipati di povera gente in fuga dall’Africa subsahariana. Sono neri di pelle e nei loro confronti i libici hanno sempre avuto un atteggiamento razzista. Ma oggi di più. Oggi che li considerano carne da macello e li spremono più che possono, ora che il regime è agli sgoccioli, sui barconi gli scafisti, i «passeur», ne stipano più che possono. Il barcone del 1˚ maggio non faceva eccezione. Significa che la traversata dura trenta-quaranta ore e in quel periodo non c’è modo di allungare le gambe, o distendersi, o ancora alzarsi per fare i propri bisogni. Non si possono portare bagagli a bordo, solo una sacchetta con il minimo indispensabile, una bottiglia d’acqua, un pezzo di pane. È per questo motivo che potremmo definire «fisico» che i testimoni di questa vicenda hanno raccontato solo un pezzo di questa storia. Hanno visto, ma erano troppo lontani per capire i dettagli. La scena del comandante che però sbraita, urla, si capisce che ha paura, e che da un momento in poi identifica in alcuni disgraziati dalla pelle nera il suo problema più grave, no, quella scena non potranno mai dimenticarla.

«Il comandante li ha indicati con il dito. E gli “altri” li hanno buttati in mare, tra le onde». Di più i testimoni individuati da «Save the children» non hanno saputo raccontare. Che si trattasse di un rito per propiziare le divinità crudeli del mare, lo hanno immaginato. Nessuno glielo ha detto. Magari è stato istintivo pensare che una persona così cattiva come quel «comandante» facesse sacrifici umani. Magari si scoprirà poi che non è vero. Che sulla barca del 1˚ maggio qualcuno si sarà ribellato. O forse qualcuno tremava più degli altri e il comandante ha deciso che si rischiava il contagio. Forse era quella la paura che gli hanno letto in faccia: se tutta quella gente che tremava, terrorizzata dalla traversata,fosse caduta nel panico, e se si fossero alzati di botto, il piccolo malandato legno si sarebbe rovesciato.

Ma che cosa è passato davvero per la testa di quello scafista non lo sapremo mai. Resta che tre passeggeri, tre disperati che avevano investito tutto i loro averi nella fuga dalla Libia sono stati buttati in mare, in acque territoriali, a metà viaggio, e i loro corpi non verranno mai più ritrovati.

Non si saprà mai il loro nome, né la nazionalità, né la loro storia. Così come non si saprà quella dei tre africani trovati incagliati sotto il barcone naufragato domenica a Lampedusa. Saranno sepolti qui, nella nuda terra, senza un nome. Solo una data, per segnare la morte.

Fonte: La Stampa

11 maggio 2011

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