I bambini di Kabul di Barbara Schiavulli


La redazione


Un racconto dalla capitale afghana pubblicato su Radio Bullets.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
I bambini di Kabul

KABUL − Questa storia comincia con una telefonata, una settimana fa. «Barbara, mi fido di te». La prima cosa che penso è che quando qualcuno ti dice così, in genere c’è in ballo una fregatura. Ma non è questo il caso. Anzi. Dall’altro capo del cellulare c’è Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. Mi spiega il problema e mi mette in contatto con una collega, Alessandra Fabretti dell’Agenzia Dire che mi chiede, visto che sto per partire per l’Afghanistan, se posso verificare la situazione di quattro bambini che potrebbero essere in pericolo a Kabul. Forse sono chiusi in una stanza, forse non hanno cibo, forse sono soli e spaventati.
La richiesta di aiuto arriva dalla zia in Olanda, una donna analfabeta ma abbastanza preoccupata da metterci tutti un po’ in stato di allerta. Con Andrea e Alessandra ci coordiniamo, ci scambiamo messaggi: la loro apprensione diventa anche la mia.

Ieri dopo un lungo viaggio, sono arrivata in Afghanistan. Un paese in piena crisi umanitaria, sociale ed economica. Un paese dove 23 milioni di persone − su una popolazione di 38 milioni − hanno bisogno di assistenza umanitaria. Un paese dove la società civile è stata cancellata e le donne vivono intrappolate nelle loro case. Si parla di un milione di bambini a rischio morte per fame. Malnutrizione a livelli mai visti. E mentre i talebani negano la crisi e puntano il dito su quel marcio che c’era prima, sperando che l’Occidente li riconosca, cerchiamo di andare a vedere cosa succede a quattro bambini dall’altra parte della capitale, in periferia.

C’è una bufera, tutto è bianco, e sebbene la neve di solito con il suo fascino copra i difetti di una città, qui invece sembra esaltarli: con le sue strade scivolose, le mendicanti coperte dal burqa sedute nella neve, gli uomini vestiti troppo leggeri con al massimo il loro patou, il mantello di lana, avvolto sulle spalle. La neve cade sulle bancarelle di verdura, offusca i vetri delle macchine, sbianca i veli delle donne che si affrettano con le borse della spesa. Dopo un’ora di viaggio non ci sono più palazzi ma le tipiche casette con le mura che uniscono diverse stanze e un cortile, dove vivono più famiglie spesso legate tra loro.

Ci lanciamo per vicoli e salite, piano piano, cercando di vedere tra i fiocchi di neve, mentre Adigol, un uomo sulla trentina, ci accompagna a casa sua. Attraversiamo un cancello, un pezzetto di terra innevato, ed entriamo in una stanza nella quale veniamo investiti dall’odore del fumo della legna bruciata dalla stufa al centro. Piccoli pezzetti di legna che però sono troppo umidi per scaldare veramente. Intorno ci sono quattro bambini che ci guardano incuriositi, ma senza troppo interesse. Non sanno che per un giro di passaparola partito dall’Olanda e passato per l’Italia, siamo qui per loro.

La storia

Adigol non è un uomo di molte parole. Era nelle forze speciali, di stanza a Paktia, provincia da dove arrivano i bambini. Ha tre figli suoi e una moglie. Con la presa del potere da parte dei talebani, che ha portato allo smantellamento dell’esercito precedente, lui si è dovuto adattare e ora vende scarpe usate in un negozietto del paese. Se la giornata è buona riesce a guadagnare fino a 100 afghani, ovvero 83 centesimi. Ma spesso nessuno compra niente, perché in Afghanistan ormai il 97% della popolazione è al di sotto della soglia della povertà.

Due mesi fa camminava per il quartiere e ha visto i quattro ragazzini che andavano a zonzo. Tre sorelle e un fratello. «Non è bene che dei bambini vadano in giro da soli. È pericoloso», sentenzia, come probabilmente farebbe chiunque. Quello che ne fa un uomo diverso dagli altri è che prende i bambini, se li porta a casa e comincia ad accudirli. «Il padre è un tossico. La madre è morta. La sorella più grande è stata rapita. Hanno dai 6 ai 12 anni e hanno già visto troppo nella loro vita».

Il padre la sera si affaccia nella stanza, dorme con i figli e la mattina se ne va a cercare l’oppio che gli serve per sopportare una vita che molti afghani non riescono ad accettare. Ha provato a disintossicarsi, ma alla fine è fuggito dal centro. Fa lavori che gli consentono di comprare la “roba”, ma non riesce a badare ai bambini. La mamma, invece, è morta a Kunduz, quando ancora avevano una casa e una famiglia, 5 anni fa. «Era una sera di Ramadan, eravamo a casa e lei è uscita un attimo», ci racconta Nazani, 12 anni. «Poi ci ha detto che era meglio che uscissimo anche noi, perché in casa faceva troppo caldo».
In quei giorni talebani ed esercito combattevano dalle loro parti e lei ha fatto in tempo a uscire per vedere la mamma crivellata da tre proiettili che l’hanno scaraventata a terra. «Non sapevamo cosa fare. Piangevamo, chiedevamo aiuto, ma quando è arrivato nostro padre era troppo tardi e noi siamo rimasti soli».

Nazani ha un viso tondo, gli occhi che si accendono mentre parla ma che si spengono di nuovo non appena finisce. Sotto al vestito si intravede un’ustione che sta guarendo, dovuta alla stufa. Nessuno di loro sa leggere o scrivere. Nessuno va a scuola. Il vicino dice che la scuola è gratis, ma servono libri, penne, vestiti e loro non hanno nulla. In un angolo di quella stanza, sporca ma dignitosa, annerita dal fumo, c’è una montagnola di stracci, la fine di una bottiglia d’olio, qualche pentola: è tutto quello che hanno. Neanche una coperta nelle notti sottozero dell’Afghanistan. Le ragazze indossano veli colorati, hanno le mani e i piedi non troppo puliti, ma piano piano che si abituano alla nostra presenza, si fanno più coraggiosi. Ziba ha 10 anni e dice di voler fare la maestra anche se non ha mai studiato. Bashira, 8 anni, ci mostra una bambola bionda senza gambe, l’unico gioco che ha. Arman, 6 anni, è l’unico maschio, si toglie i calzini, fa “ciao” con il piede e accenna a un sorriso. Siamo lì da mezzora è nessuno di loro ha mai sorriso. «Vorremmo una vita migliore». Nazani, che significa una vita migliore? «Andare a scuola, avere caldo, mangiare». Giocare a cricket, esclama impertinente il piccolo Arman, che aggiunge che è un gioco da maschi. E il cuore un po’ si stringe.

Chi è Arzu? «È nostra sorella, ha 14 anni, era lei a badare a noi. Ad agosto quando sono arrivati i talebani, hanno fatto irruzione nella stanza dove stavamo – non dove sono ora – ci hanno visto soli, hanno visto Arzu e hanno detto che non doveva stare lì, che doveva sposarsi, l’hanno presa con la forza mentre lei strillava e noi piangevamo, e l’hanno portata via». Da allora non se ne sa più niente. Hanno preso altre ragazze? «Non lo sappiamo», risponde Nazani, e Adigol ci spiega che con loro era stato facile perché erano da soli. Quando il padre è tornato, la sera, è andato a pezzi: urlava, piangeva, ha provato a cercarla.
Poi qualche giorno dopo, per strada, hanno incontrato Adigol che li ha presi con la sua famiglia. «Non è sicuro per dei bambini, ho fatto solo quello che andava fatto». La situazione economica di Adigol non è buona, ogni tanto i vicini gli allungano qualche soldo o portano da mangiare, ma ai piccoli serve tutto, dai vestiti alle scarpe, ma soprattutto l’idea di un futuro. Non escono dal cortile, non giocano se non tra di loro, Nazani che è la più grande, anche volendo, per ordine dei talebani, non potrà neanche più andare a scuola.

Tempo di “shopping”

E qui la storia di una giornalista finisce. Abbiamo verificato che tutto sommato stanno bene, non sono più poveri o più sfortunati di milioni di bambini in Afghanistan. Quante storie abbiamo raccontato come questa, quante volte siamo entrati in case fatiscenti e abbiamo raccontato dolore e sofferenza? Quante volte abbiamo guardato ferite sulla pelle e nell’anima della gente? Quanti bambini ci sono che hanno perso i genitori, che hanno fame o che non hanno mai avuto qualcuno che gli rimboccasse le coperte o gli leggesse una favola? Forse una volta di troppo.

Prendo il giornalista afghano che lavora con me e lo trascino in macchina. Gli dico di dire ad Adigol che dobbiamo andare un attimo via ma che saremmo tornati un’ora dopo. Ci salutano, ci guardano un po’ sgomenti e la stanza ripiomba nel silenzio.

Andiamo nella via principale e cambiamo 100 dollari, più o meno 10.000 afghani. «E ora amico mio, facciamo shopping». Lui mi guarda e sorride annuendo con la testa. Sedici kg di farina, 810 afghani. Cinque litri di olio, 1.050 afghani, sette kg di zucchero – che a me sembrano troppi, ma mi adatto – 470 afghani, sette kg di fagioli, 800 afghani, due kg di sale, 40 afghani, sette kg di riso, 450 afghani, due pezzi di sapone 60 afghani, uno shampoo grande 100 afghani per un totale di 3.755 afghani, circa 35 euro. Poi andiamo a prendere due coperte, a 12 euro l’una, infine sette kg di patate, sette di carote, e sette di mele. Il bagagliaio si riempie mentre i negozianti fissano questa strana straniera che fa la spesa in città.

«Abbiamo fatto?», mi chiede Najib. «Oh no, quella roba serve per sopravvivere, a questi bambini strapperemo un sorriso, vecchio mio». Compriamo cinque bambole (orribili, ma non c’era altro) per un euro e mezzo ciascuna, da dare non solo alle bambine che abbiamo conosciuto, ma anche alle figlie di Adigol, una macchinina per Arman, quaderni e matite per tutti. E poi, consapevole che sono giochi vincolati dal genere − le bambole per le femmine e la macchinina per il maschio − mi ribello a me stessa, prendendo due palle da cricket una per il maschio e l’altra per tutte le femmine. Ci avanzano 2.500 afghani che decidiamo di dare ad Adigol almeno per tirare avanti un po’. In tutto abbiamo speso 100 dollari. Nove persone camperanno per le prossime due settimane, forse un po’ di più. Soldi che non sono nostri: prima di partire un’associazione, la WFWP, Federazione delle Donne per la Pace nel Mondo della sezione di Padova, ci ha dato qualche soldo «per l’emergenza freddo: insomma, quando puoi aiutare qualcuno fallo», mi hanno detto, fidandosi di me.

Ma non è ancora finita, perché dobbiamo ritornare a casa di Adigol. Arriviamo, lo trasciniamo verso il bagagliaio e quando lui lo vede pieno, resta letteralmente senza parole − non che prima ne avesse molte. Portiamo tutto nella stanza dei bambini, mentre tengo stretto il sacchetto con i giochi. Vedono il cibo a terra e per un momento il silenzio è talmente assordante che temo si possano sentire male. «È per voi, è per tutti», diciamo guardando Adigol e dandogli istruzioni. «Il cibo è per i bambini ma lo dovete tenere voi, perché non vogliamo che il padre possa vendere queste cose».

Il piccolo Arman vede la coperta e urla che è sua. Mi guardano e capiscono che si devono sedere per terra, mi abbasso, mi metto tra di loro e comincio a distribuire le bambole, la macchinina, i colori, le palle. E per la seconda volta credo che si possano sentire male, poi scoppiano in un sorriso ed è come se la stanza improvvisamente fosse pulita e luminosa. Toglie il fiato anche a noi. Sono così emozionati che non tirano fuori neanche le bambole dalle scatole: le guardano sorridendo come se fosse cioccolato.

Un euro e mezzo

Un euro e 50 ciascuna. Questo ci è costato far tornare di nuovo bambini, per un momento, dei bambini. Nel giro di trenta secondi le ragazzine parlavano tra loro, Arman mimava il rumore di una macchina; mancava solo una musica di violini per farci piangere tutti. Poi Arman si è lanciato sul sacchetto delle mele, che sono rotolate a terra come la lava di un vulcano, ne ha presa una e senza neanche pulirla, l’ha morsa con gusto dicendoci che non ne mangiava una da due mesi.

Quando ce ne andiamo quella stanza non è più silenziosa come quando siamo arrivati. Ci sono risate, sorrisi e tante parole. E sappiamo bene di non aver cambiato la loro vita. Di non aver fatto alcuna differenza, se non per un minuto, ma una cosa è successa: quei bambini hanno costretto noi adulti ad allearci per aiutarli. Sono stati loro a fare la differenza in noi.
Mi volto per dare un ultimo sguardo alla casa, Adigol è ancora sul cancello che ci guarda andare via, la sua mano sul cuore continua a ringraziarci anche da lontano. Ha perfino smesso di nevicare sulla via del ritorno mentre chiedo alle amiche di Nove Onlus, che l’Afghanistan lo conoscono bene, se possono fare qualcosa. Il prossimo passo sarà metterle in contatto con Adigol e vedere se riescono a continuare a dargli una mano nei prossimi mesi.

Oggi è il primo giorno del nostro ritorno in Afghanistan. Ma in questa piccola storia − che è meno di una goccia nel mare, ma è la nostra goccia − c’è qualcun altro da ringraziare. E sono le persone che mi hanno permesso di venire qui. Quelle che credono nell’informazione indipendente. Quelle che ci hanno messo del loro, per permetterci di raccontare il mondo, e a volte anche trasformarlo in uno migliore anche se solo per un momento. Un giornalismo impegnato e impegnativo.

È stata una giornata intensa, ma nonostante il freddo, siamo tornati caldi, un po’ meno cinici, e forse un po’ migliori per chi scrive e chi legge.

Barbara Schiavulli
Radio Bullets
17 gennaio 2022

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+