Non solo braccia da usare e gettare!
Agi
Il dibattito sulla regolarizzazione per l’agricoltura ha fatto riemergere una cultura coloniale, strumentale e mercantile nel rapporto tra l’Italia e gli africani. E una feroce resistenza al cambiamento culturale.
Non siamo solo braccia da usare e gettare. Ma anche anima e mente, con dignità di persona
In questi giorni in cui infuria la polemica sulle regolarizzazioni, noi, due donne afroitaliane, siamo invase da una grande frustrazione. Quello che però ci crea dolore è proprio il dibattito che si è formato intorno alla possibilità di regolarizzare i migranti.
Abbiamo subito avuto la sensazione di vivere un déja vu, qualcosa che ha già attraversato il nostro corpo considerato, a torto, alieno.
Ormai è dagli anni ’70 che migranti e figli di migranti, padri, madri, figli, si sentono considerati corpi alieni, estranei alla nazione. E se il corpo dell’alieno entra nel dibattito deve, per il mainstream nazionale, avere qualcosa di utile da portare in cambio.
E questo, ahi noi, si è visto molto bene nel discorso sulle regolarizzazioni.
Si è parlato di migranti come braccia per l’agricoltura, utili per raccogliere pomodori e zucchine. Abbiamo visto anche gente che stimiamo scrivere tweet con questo tono “se non regolarizzi il migrante ora, te ne accorgerai al banco del mercato questo giugno, vedendo quanto costano gli ortaggi”.
Migrante braccia, migrante ridotto ad essere bestia da soma.
Ma, il corpo migrante è corpo umano, dotato di anima, sentimento, cervello, sogni.
Il migrante è persona, è mente, intelletto, ragione ed è terribile vedere quanto invece viene considerato alla stregua di un automa visto in mera funzione mercantile, quindi legato al bisogno “carnale” della nazione.
Siamo consapevoli che la regolarizzazione non deve essere portata avanti per settore, ma si deve cogliere il vento della storia e accettare finalmente di essere una società transculturale, in cui convivono individui di ogni colore, appartenenza, religione.
Ma tutto questo, con nostro profondo rammarico, non sta emergendo.
Il discorso sulle regolarizzazioni ha solo mostrato quello che abbiamo sempre visto, ovvero l’uso strumentale del corpo migrante e/o di origine migrante. Un déjavu dove i partiti politici si schierano da una parte all’altra della barricata, e dove anche tra i “buoni” si nascondono ancora troppe insidie.
Abbiamo visto tutto ciò con la mancata legge sulla cittadinanza italiana (anche lì a ben pensarci una regolarizzazione, rendere italiano chi già lo era di fatto) che dopo tante parole e promesse non è arrivata mai.
Questo atteggiamento nasconde di fatto un discorso profondo di cittadinanza negata a tutti i livelli sia legale sia culturale.
L’Italia si è costruita, fin dal suo sorgere come nazione, in opposizione a un diverso.
Non è un caso che l’Italia postunitaria abbia abbracciato repentinamente la cosiddetta “avventura” coloniale. E nonostante le cocenti sconfitte militari ottocentesche (Dogali, Adua) non si è fermata in questo folle disegno di superiorità verso l’altro che poi sappiamo aver portato al fascismo, agli eccidi in Etiopia e alle leggi razziali che hanno colpito colonizzati e cittadini italiani di religione ebraica.
E quel sentirsi superiori all’altro, quella percezione insita di dominatore che ci ha condotto allo stato attuale delle cose.
Il migrante, come prima il colonizzato o i cittadini italiani di religione ebraica, viene visto come qualcosa che la nazione deve usare e poi gettare. Corpo senza dignità, da descrivere solo con stereotipi negativi e discriminare senza pietà.
E se il razzismo conclamato è una delle manifestazioni di questo disprezzo, va detto che ci sono anche modi sottili per non far partecipare al banchetto della nazione i corpi considerati non a norma.
Infatti, in Italia è raro vedere un guidatore di bus afrodiscendente, una docente nelle scuole e nelle università di origine araba, o un giornalista di altra origine all’interno delle redazioni delle testate. Chi riesce a ritagliarsi un piccolo spazio, spesso, non riceve riconoscimenti e la visibilità è strappata con le unghie e con i denti.
I luoghi della cultura e della formazione spesso sono interdetti, perché il corpo altro e la mente altra sono accettati solo come corpo e mente subalterni. Al corpo altro e alla mente altra non è concesso che abbiano pretese di parità. Noi stesse, noi donne afrodiscendenti, lo viviamo sulla nostra pelle.
Ed è questo che ci ha rattristato nuovamente nel dibattito in corso.
É l’ennesima volta che siamo messi davanti al fatto che non siamo corpi graditi. Non siamo menti volute. Siamo considerati (a torto!) un’eccentricità.
E, di fatto, così si nega l’essenza di quello che è diventata l’Italia nel 2020.
La crisi del Covid 19 avrebbe dovuto riavvicinarci. Il Covid 19 non ci guarda in faccia, noi siamo per lui semplicemente entità da attaccare e annientare. Siamo esseri umani, al virus non importa se siamo bianchi o neri, se siamo cristiani, ebrei, musulmani. Al virus interessano i nostri polmoni, i nostri vasi sanguigni.
Ma anziché unirci in un abbraccio collettivo, anche se a distanza, parte della società ha deciso di tracciare i confini di sempre, quelli tra noi e loro, tra corpi utili e corpi di scarto, corpi che raccolgono pomodori e corpi che non li raccolgono.
E le parole sono sempre quelle già sentite (purtroppo!) troppe volte. Chi, oggi si oppone alle regolarizzazioni, ieri si opponeva alla cittadinanza. Le parole sono le stesse: “è troppo presto”, “non è una priorità”!
Ma, noi che amiamo e viviamo in questo paese, ci chiediamo: quando diventeremo la priorità?
In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo in cui si è palesata la vulnerabilità sociale, in cui mai come adesso abbiamo sotto gli occhi che il benessere di tutti tutela il benessere del singolo, dove regolarizzare significa anche dotare l’intero paese di una tutela sanitaria, non regolarizzare la posizione dei migranti è anacronistico e in un certo senso inumano.
Regolarizzare la posizione dei migranti caduti in stato di illegalità (spesso a causa dei meccanismi di una legge ingiusta come la Bossi-Fini) significa portare avanti lo stato di diritto.
È una tutela per la persona che viene regolarizzata, ma una tutela maggiore per tutta la cittadinanza, perché i diritti del prossimo salvaguardano anche tutti noi.
Dobbiamo ricordarci che un cittadino, straniero e non, ha bisogno prima di tutto di essere riconosciuto nella sua dignità di persona. L’Italia deve accettare di essere cambiata. La sua trasformazione è emersa già da decenni e non da adesso. L’Italia e soprattutto le istituzioni italiane non devono temere e soprattutto non possono continuare a resistere al cambiamento.
Diceva Hanif Kureishi, scrittore anglo-pakistano, parlando della sua Inghilterra che essere inglesi oggi è molto diverso dall’esserlo stati cinquanta anni prima. Anche l’Italia, come la Gran Bretagna, è cambiata in questi ultimi cinquant’anni. Ora ci siamo anche noi in questa nazione, noi a torto considerati alieni dalle istituzioni. La nostra continua ad essere una cittadinanza negata.
* Leila El Houssi è docente di Storia del Medio Oriente presso l’Università di Firenze; Igiaba Scego è scrittrice di saggi e romanzi, ultimo dei quali “La linea del colore”, Bompiani, 2020
9 maggio 2020
L’Espressoonline