Il regime e la piazza


Michele Giorgio, Il Manifesto


Gli agenti del regime ci stanno provando in tutti i modi a rovinare l’immagine di un paese ospitale e generoso. L’Egitto vero è quello dei due milioni di persone che si sono radunate in piazza Tahrir per reclamare «libertà, democrazia, lavoro».


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Il regime e la piazza

Gli agenti del regime ci stanno provando in tutti i modi a rovinare l'immagine di un paese e di un popolo ospitale e generoso. Organizzando attacchi anche ai giornalisti, come alle reporter spagnole Laura Lopez Caro di Abc e Beatriz Mesa di Radio Cope, costrette a scendere dalla loro macchina da una folla inferocita che le ha sbattute contro un muro, o al giornalista svedese Bert Sundstroem, accoltellato alla gola. Ma il volto dell'Egitto non è quello delle gang di adolescenti, armati di bastoni e coltelli e pagati dalla polizia politica, che ieri mattina, a Saida Zeinab, uno dei quartieri popolari più accoglienti della capitale egiziana, hanno bloccato con modi bruschi anche chi scrive e un altro giornalista italiano, «colpevoli» di riferire quanto accade nel paese. L'Egitto vero, che conosciamo e amiamo, è quello dei due milioni di persone che si sono radunate anche ieri in piazza Tahrir, ad Alessandria e in altre città per reclamare «libertà, democrazia, lavoro» e dare la spallata finale al raìs che rimane aggrappato alla poltrona. Forse la rivoluzione del 25 gennaio non riuscirà ad imporre a Mubarak le dimissioni immediate e l'esilio. Il regime è scosso, indebolito ma ancora forte. Senza sottovalutare che le Forze armate, che pure si sono fatte garanti del diritto degli egiziani a manifestare liberamente il loro dissenso, comunque eseguono gli ordini che arrivano dai vertici del regime. Ma gli egiziani non hanno più paura, è questo il primo importante traguardo raggiunto dalla rivolta. Sono disposti a morire pur di realizzare le loro aspirazioni e il regime non riuscirà a riportare il paese al 24 gennaio.
Un cordone fatto di posti di blocco volanti ieri correva intorno a tutta l'area di Piazza Tahrir e del centro commerciale del Cairo. Il Pnd, il partito al potere, ci spiegava ieri un collega egiziano, ha distribuito in giro un bel mucchio di biglietti da cento pound (12 euro) per mobilitare i giovani e spingerli a «farsi garanti della stabilità del paese», minacciata da «elementi deviati» locali e dagli stranieri. Aveva fatto lo stesso, rivelava giovedì il giornale Masriyoun, dopo il discorso di Mubarak, per «ripulire» la piazza della rivolta. Ragazzini armati di bastoni, mazze da baseball, coltelli da macellaio, hanno provato a terrorizzare la popolazione disseminando posti di blocco nei quartieri a ridosso del centro del Cairo. «Forza, tirate fuori i documenti», urlava ieri un ragazzino con qualche chilo di troppo e un bastone nelle mani rivolgendosi ai passeggeri di un autobus sgangherato proveniente da sobborgo meridionale della città. «No Tahrir, no Tahrir» gridavano in faccia ai malcapitati i suoi compagni. Scene simili si sono ripetute centinaia di volte ovunque nella capitale. «Attività» svolte in costante coordinamento con la polizia e anche l'esercito. Chi scrive e altri giornalisti, dopo essere stati fermati e minacciati, sono stati portati «per accertamenti» ad un comando delle Forze Armate. In altri casi tra i ragazzi trasformati in aguzzini, si muovevano anche gli agenti della polizia politica.
Una barriera che si è rivelata inutile perchè, al termine delle preghiere islamiche, un fiume in piena si è riversato dentro Tahrir. Migliaia e migliaia di egiziani, laici e religiosi, di ogni colore politico, hanno dato vita ad uno spettacolo politico eccezionale. In un clima sereno e festoso. Canti, striscioni, cortei di donne in marcia all'interno della piazza. «Il processo di riforme partirà presto perchè il regime non può più rinviarlo – ci diceva Marwa, una femminista – le donne devono lottare per avere una legislazione più moderna, più rispettosa dei propri diritti, ne stiamo discutendo all'interno delle consultazioni con le altre organizzazioni della società civile». Accanto scandivano slogan contro il regime centinaia di donne con l'hijab, mobilitate con ogni probabilità dai Fratelli Musulmani, ieri numerosi in Piazza Tahrir. «È la prima volta che mi unisco alla protesta contro Mubarak. E sai perchè sono qui? Per rendere onore a quest'uomo», ci diceva Adel, un giovanissimo avvocato di Masr Gadid mostrando la foto di Ahmed Bassiuni, un ricercatore dell'università di Hilwan ucciso il 25 gennaio dal fuoco della polizia. «Era un uomo eccezionale, non amava la violenza e voleva solo esprimere le sue idee, ma il regime l'ha fatto uccidere». Qualche minuto dopo il «Movimento 6 aprile», in prima linea contro Mubarak, ha nominato Wael Ghonim, un dirigente egiziano di Google, disperso dal 25 gennaio e che sarebbe nelle mani dei servizi di sicurezza.
Tante le idee, tante le proposte per il futuro, una sola certezza: Mubarak deve andare a casa subito. Su questo punto concordano tutte le opposizioni, sia il comitato dei saggi del quale fa parte il premio Nobel, Mohammed el Baradei, che i partiti di opposizione e le decine di migliaia di egiziani che in varie città hanno aderito al «venerdì della partenza»: 100.000 ad Alessandria, 10.000 a El-Menoufia, 20.000 a El-Mahalla El-Kubra, 5.000 a Suez ; 30.000 a El-Mansurah e Luxor, 5.000 a Assiut.
Che la transizione cominci immediatamente non lo chiedono più solo le opposizioni e i manifestanti. Ieri in Tahrir c'erano anche importanti uomini politici tra i quali Amr Moussa, il segretario generale della Lega Araba, da tempo in aperto dissenso con il raìs. «Condivido le aspirazioni di questa gente» ha detto. «I manifestanti chiedono a gran voce il cambiamento e le riforme. Chiedono che si apra una nuova era in Egitto, le loro domande e aspirazioni sono le mie. L'Egitto ha bisogno di un nuovo inizio», ha aggiunto, aprendo di nuovo a una sua possibile candidatura alla presidenza. ElBaradei invece non ha sciolto la riserva sulla sua candidatura. In piazza sono scesi altri volti noti. Mohammad Rifaa Tahtawi, portavoce dell'Università islamica Al-Azhar controllata dal regime, si è dimesso per unirsi ai manifestanti. Eppure, nonostante le proteste e gli inviti, ormai chiari, ad abbandonare il potere che arrivano da Europa e Stati Uniti, Mubarak non vuole farlo, paventando che possa scatenarsi il caos. Gli uomini del regime sono convinti che il presidente resterà in carica fino alle elezioni. Il ministro delle finanze egiziano, Ahmed Abdul Gheit, ha detto rivolgendosi indirettamente agli Stati Uniti che «forze provenienti dall'esterno non possono dettare i tempi della transizione di potere». Dello stesso parere anche Mohammad Ibrahim Kamel, un importante uomo d'affari egiziano molto vicino a Mubarak. Il primo ministro Ahmed Shafik ha difeso il diritto del presidente a restare in carica fino alle prossime elezioni. E questa protezione ad oltranza del presidente allontana la soluzione della crisi e genera caos e violenza nelle strade.

di Michele Giorgio, inviato al Cairo

Fonte: il Manifesto

5 febbraio 2011

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