Istanbul: due incontri inattesi


Piero Piraccini


Istanbul: due incontri inattesi Istanbul, 2015. Un viaggio per una felice ricorrenza familiare. Moschee e fontane che la sera, illuminate, tolgono il fiato per la bellezza, negozi di tappeti e di lampade colorate, di frutta e di dolci, di pannocchie abbrustolite, donne vestite come la loro religione suggerisce, e cani, tanti cani che passeggiano padroni […]


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trattato

Istanbul: due incontri inattesi

Istanbul, 2015. Un viaggio per una felice ricorrenza familiare. Moschee e fontane che la sera, illuminate, tolgono il fiato per la bellezza, negozi di tappeti e di lampade colorate, di frutta e di dolci, di pannocchie abbrustolite, donne vestite come la loro religione suggerisce, e cani, tanti cani che passeggiano padroni lunghe le strade. E poi il Museo archeologico. Fra tanti reperti storici, vasi, statue di guerrieri e di animali e un viso di grande fattura che rappresenta Alessandro Magno, m’imbatto in una teca che protegge una tavoletta d’argilla grande quanto un doppio formato A3. Su di essa sono incise parole in caratteri cuneiformi e in lingua ittita che, naturalmente, non so tradurre. Mi aiuta l’iscrizione di fianco. Si tratta del più antico trattato di pace finora conosciuto. E’ il trattato di Qades stipulato nel 1259 A.C. fra l’egiziano Rames II e l’ittita Hattsusili III. Una guerra iniziata 15 anni prima finiva con un accordo così equilibrato che una sua copia è esposta nella sede dell’ONU, a New York. Entrambi avevano riconosciuto l’inutilità di proseguire la guerra mentre il faraone egiziano, per dare più consistenza all’accordo, sposava una figlia del re ittita. Poi Sariyer, distretto della provincia di Istanbul, luogo dell’incontro inatteso raggiunto con un traghetto che procede lungo la costa che porta al Mar Nero, restando sul lato europeo. Dall’altra parte, a poche centinaia di metri, il continente asiatico. E’ vero, è solo una convenzione geografica: qua come là vivono persone con le loro gioie e i loro affanni, ma fa un certo effetto sapere che stai guardando terre di un altro continente così come le ville signorili che si affacciano sul Bosforo. Il traghetto accosta al molo di Sarayer, cittadina di mare che accoglie ancora con frutta e dolci e pane e pannocchie, stavolta non abbrustolite ma lessate sia i grani sia (sembra) le foglie, e di nuovo cani, tanti cani distesi sui marciapiedi. Lungo la spiaggia, ristoranti e barche alcune in funzione altre in stato di abbandono come i tanti villini di legno. Entro in un ristorante, il cameriere accompagna me e i miei al piano superiore dove un terrazzo si affaccia sul mare. Ci sediamo. Il cameriere mostra il menu. Con un po’ di difficoltà – noi non parliamo il turco, lui non parla l’italiano – riusciamo a capirci. Capiamo anche che lui non è turco. Lui dice che no, non lo è perché loro sono così: e fa un gesto col corpo, rigonfiando il petto e arretrando il capo, a mo’ di tronfia superiorità. E’ così che pronuncio il nome Ochalan, perché capisco che lui è curdo. Il suo viso s’illumina. Vorrei dirgli di quando – sono passati alcuni anni ormai – avevo messo ai voti in consiglio provinciale un ordine del giorno in favore di Ochalan, il capo indiscusso dei curdi, arrestato in Italia. Farfuglio qualcosa che ha a che fare con quel mio gesto di anni precedenti, ma non credo di essere riuscito a farmi capire. Poi lui cerca di dirmi quali difficoltà ha un curdo a lavorare in un ristorante di proprietà di un turco. Ed io lo capisco bene. E quando parla, molto spesso si gira guardingo nel timore di essere sentito. Poi, verso la fine del pranzo, dopo circa un’ora, mentre un gabbiano va e viene dal davanzale del terrazzo, lui mi guarda e mi dice con fierezza accompagnata con un gesto della mano rivolto a se stesso: “Io comunista”. Io gli sorrido. Quando usciamo dal ristorante, gli porgo la mano per salutarlo. Anche lui allunga la sua, ma per prendere la mia e, incurvandosi leggermente, baciarla, cosa che mi imbarazza non poco. Poi dalla cucina escono altri suoi colleghi, senz’altro curdi anch’essi, che salutano ringraziando per quello che per loro, evidentemente, è stato un regalo. Non so se tornerò più a Istanbul, ma se risuccederà andrò ancora nel museo per rimirare quella tavoletta che conserva intatto il suo valore per quello scritto di 3500 anni fa e prenderò ancora quel traghetto e mi fermerò a Sarayer per andare in quel ristorante, sperando che il dittatore Erdogan, non l’abbia avuto vinta su quel cameriere curdo fiero della sua appartenenza politica.

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