Somalia, decine di migliaia di persone in fuga


Massimo A. Alberizzi


Altissimo il numero degli sfollati a causa degli scontri. Duecentomila persone hanno abbandonato Mogadiscio.


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Somalia, decine di migliaia di persone in fuga

Antonietta, una delle pochissime donne cristiane di Mogadiscio, piange disperatamente. Ha dovuto lasciare la sua casa semidiroccata nel quartiere Wardigley ed è scappata anche lei verso Afgoi, a una trentina di chilometri dalla capitale, una volta centro agricolo orgoglio della Somalia. Le banane di Afgoi riempivano i banchi dei mercati di tutta Europa. Oggi, dopo 16 anni di guerra civile, la città è solo un ammasso di profughi sventurati.

Antonietta si è accampata assieme alle due figlie poco fuori Mogadiscio, in uno dei 50 campi spontanei spuntati lungo la strada. Ha costruito lei stessa una misera capanna di frasche intrecciate. Teme di essere assassinata o, se le va bene, stuprata. «Non ho niente da magiare; l'acqua è inquinata; non ho soldi neanche per scappare. Se entro ad Afgoi mi sbattono nel campo profughi e allora, poiché sono cristiana, nessuno mi darà nulla. Spero che qui passi un camion nell'Onu e mi lasci qualcosa», urla con la voce rotta dalle lacrime.

Almeno duecentomila persone sono fuggite da Mogadiscio.
Da una decina di giorni fa, per l'ennesima volta, la capitale somala è sconvolta violenti scontri. L'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) denuncia: «In Somalia gli sfollati sono ormai un milione, su sette milioni di abitanti». Afgoi scoppia, non ci sono le strutture per accogliere chi scappa e gli aiuti non arrivano.

I bombardamenti indiscriminati, i conflitti a fuoco e i duelli violentissimi a colpi di cannone e di mortaio
scoppiati a Mogadiscio tra soldati etiopici, alleati alle truppe lealiste, e ribelli che si oppongono al Governo Federale di Transizione (ora in Somalia chiamati con il termine arabo muqawamah, cioè resistenza), hanno causato almeno duecento morti. Interi quartieri sono ormai diventati fantasma. Porte e finestre delle poche abitazioni rimaste in piedi sono sbarrate. La paura che sui tetti siano annidati i cecchini spinge l'autista dell'auto noleggiata dal Corriere a correre a più non posso. L'ospedale di Medina è pieno di feriti che accusano gli etiopi di ferocia, anche se qualche intervistato spiega che non è proprio così: «Non so chi mi ha ferito – racconta Abdi con il braccio spappolato da un proiettile – mi sono trovato in mezzo alla battaglia».

Gruppi di sfollati si sono accampati sulla strada di Daynile, sobborgo sudoccidentale della città, poco lontano dall'ospedale gestito fino alla settimana scorsa dalla sezione francese di Medici senza Frontiere. «Non hanno acqua né cibo – aveva spiegato Matthew Cleary, il capo progetto poche ore prima di lasciare la struttura che aveva messo in piedi un paio di mesi fa -. Non ci sono lastrine e si rischia un'epidemia di tifo e colera». Matthew avrebbe voluto restare nel suo ospedale, ma l’ordine da Parigi è stato tassativo: «La sicurezza è precaria: dovete rientrare».

Un paio di giorni dopo la loro partenza, giovedì scorso, poco lontano dall'ospedale un camion carico di soldati etiopici è saltato su una mina telecomandata dai muqawamah. Anche quella zona è diventata altamente insicura e gli abitanti di quel campo profughi improvvisato si sono spostati verso Afgoi.
Raggiunto al telefono a Baidoa, 250 chilometri da Mogadiscio dove ha sede il parlamento somalo che dovrebbe nominare il primo ministro tra poche ore, Davide Bernocchi, direttore della Caritas Somalia, lancia un appello: «Non riusciamo ad aiutare tutti quelli che ne avrebbero bisogno. La situazione della sicurezza è pessima, quella politica in stallo. E poi ci sono gli sciacalli, cioè coloro per i quali gli sfollati sono un affare lucroso; coloro che sono legati al business degli aiuti. Abbiamo bisogno di aprire un corridoio umanitario sicuro per far arrivare il cibo a chi ne ha bisogno».

La distribuzione alimentare è difficilissima: «Per arrivare ad Afgoi si devono passare numerosi posti di blocco dove militari e poliziotti infedeli ti chiedono anche fino a 300 dollari per farti passare», spiega un autista che sta uscendo dal porto di Mogadiscio con il suo camion carico di sacchi di farina donato dal World Food Programme. È una guerra tra disperati per sopravvivere: i soldati e i poliziotti sembra che non ricevano più i salari. Pagati dall'Onu gli stipendi finiscono invece nelle tasche di qualche funzionario.

A Mogadiscio continuano i rastrellamenti casa per casa
, soprattutto nella parte settentrionale della città, nel quartiere attorno all'ospedale dell’organizzazione umanitaria SOS Children. Raggiungere l'ospedale è difficile e pericoloso. La zona è il caposaldo degli insorti islamici, guidati Muktar Robow, il comandante dei fondamentalisti che dopo un lungo soggiorno in Afghanistan è tornato in Somalia con il nome di battaglia di Abu Mansur.

Le strade intorno alla struttura sono deserte ma sul terreno restano i segni della battaglia: bossoli, sandali abbandonati per scappare meglio, rottami di veicoli. È stato in quell'area che una decina di giorni fa gli insorti hanno ammazzato sette soldati etiopici (alcune fonti dicono nove). Due cadaveri legati a una fune sono stati trascinati da una folla ululante fino in centro città, al mercato di Bakara. Una Black Howk Down etiopica. Le immagini trasmesse da Al Jazeera, che ricordano quelle a suo tempo (era l'ottobre del 1993) messa in scena quando furono uccisi 18 marines americani dell’operazione Restore Hope, hanno fatto infuriare gli etiopi.

I rastrellamenti casa per casa sono stati fatti con il pugno di ferro e la popolazione civile si è trovata tra due fuochi: da un lato i soldati etiopici dal grilletto facile, decisi a vendicare i compagni, dall'altra gli insorti, che spesso di sono fatti scudo della popolazione civile, e la loro reazione "mordi e fuggi". I duecento morti per la maggior parte non sono né soldati, né combattenti, ma gente comune.

«Siamo sotto una pressione altissima – racconta un intellettuale somalo che non ha voluto lasciare la sua casa -. I soldati governativi e i loro alleati etiopici hanno paura, sono nervosissimi e sparano al primo movimento sospetto. Gli insorti sono assassini: ammazzano chiunque sia indiziato di collaborazionismo». La Croce Rossa denuncia: «In meno di un anno almeno 80 omicidi».

«I capi degli islamici sono in fuga verso il sud della Somalia, lungo la costa dell'Oceano Indiano – spiega il comandante delle truppe etiopiche, generale Gebre Kidane –. Ma stavolta non commetteremo l'errore di un anno fa. Non lasceremo loro nessuna via di scampo. Li inseguiremo ovunque essi vadano anche fino a Dar es Salaam, se sarà necessario».

Massimo A. Alberizzi

Fonte: www.corriere.it

20 novembre 2007

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