4 novembre: non chiamiamola vittoria


Piero Piraccini


Giornata del 4 novembre, non chiamiamola vittoria Nelle scorse settimane, cent’anni dopo la fine della prima guerra mondiale, si sono sprecate parole come vittoria, sacrificio, patria, onore. A Cesena, il monumento al parco delle rimembranze porta la scritta: Ob patriam caesis Caesena mater dicavit. Tradotta: Cesena madre (lo) dedicò ai caduti per la patria. Non è chiaro […]


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San-Martino

Giornata del 4 novembre, non chiamiamola vittoria

Nelle scorse settimane, cent’anni dopo la fine della prima guerra mondiale, si sono sprecate parole come vittoria, sacrificio, patria, onore.

A Cesena, il monumento al parco delle rimembranze porta la scritta: Ob patriam caesis Caesena mater dicavit. Tradotta: Cesena madre (lo) dedicò ai caduti per la patria. Non è chiaro se l’autore intendesse che si erano sacrificati per la patria o, invece, che erano morti a causa della patria. Il possibile equivoco – eravamo alla fine degli anni 20 – non turbò più di tanto gli allora ideologi fascisti. Forse perché la lingua latina non era il loro forte o forse perché ritenevano assodato che le parole patria e sacrificio non potessero che essere coniugate assieme.

Poco importa. Importano, invece, i nomi riportati sotto quella scritta, quelli di centinaia di soldati mandati a combattere ragazzi come loro che di diverso avevano solamente la divisa e la lingua. Senza un perché. Poteva essere tale l’estensione dei confini italiani a Trieste e a Trento? Pensiamo di essere stati uno delle centinaia di migliaia di caduti, mutilati, storpiati, resi ciechi, muti o sordi e vedrete: non c’è Trieste o Trento che tengano.

La storia è sempre la stessa: chi decide la guerra, non la combatte, al massimo ne organizza le modalità. Come quel generale Cadorna, lo sconfitto di Caporetto, secondo cui “Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta: la via dell’onore, quella che porta alla vittoria o alla morte sulle linee avversarie. Ognuno deve sapere che chi tenti di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale”. E se l’accertamento dell’identità personale dei responsabili di reati non è possibile, “rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte”.

In quei tempi Ungaretti scriveva “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, parole incise sul corrimano di una balaustra a San Michele del Carso, vicina a due trincee contrapposte: dei soldati italiani e dell’esercito austroungarico, distanti un centinaio di metri. Una lapide vicina al bollettino della “Vittoria” di Diaz (la guerra fu condotta “con fede incrollabile e tenace valore”), riporta un’altra scritta: “Fu seme il fante e vittoria il fiore”.Bene, il fiore di quella vittoria, su quella trincea, fu concimato col sangue di 111696 soldati. Ma in tutto furono oltre 9 milioni le persone morte sui campi di battaglia, sulle trincee, sulle terre di nessuno.

E però seguì, dopo appena vent’anni, un’altra guerra ancora più sanguinosa di questa. Il fatto è che nessuna pace si fonda sulla vittoria, sia perché una vittoria fondata sulla carneficina tale non è, sia perché ogni pace vera si fonda sulla giustizia. Si vide quando l’oppressione esercitata sulla Germania vinta, fu un potente acceleratore della crisi politica e sociale in cui trovò morte la repubblica di Weimar e vita il nazismo; e dopo la seconda guerra mondiale, quando le potenze vittoriose posero se stesse (ma a Norimberga, i criminali di Hiroshima processarono gli aguzzini di Auschwitz, dirà padre Balducci) come membri dotati di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Anche per questo è delirante dire che occorre sostituire le feste del 2 giugno e del 25 aprile perché dividono, con quella del 4 novembre perché unifica. Tutte e tre le date ricordano una netta divisione fra gli italiani: le une fra chi volle democrazia e repubblica e chi le combatté, l’altra fra chi volle pace e chi guerra. Né vale citare il sacrificio delle migliaia di soldati morti sul Carso: loro non si sacrificarono, semplicemente furono mandati al macello. Ne derivò il fascismo, la ragione per cui oggi qualcuno riveste quel giorno di onore ed eroismo.

Piero Piraccini

4 novembre 2018

 

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