La sfida fra le potenze del Medio Oriente


Maurizio Molinari


La sorte di Mosul è un crocevia del Medio Oriente, descrive uno scenario assai più vasto che rispecchia la sovrapposizione di interessi e potenze rivali. E l’esito potrebbe avere conseguenze di lungo termine.


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guerramosul

La battaglia che incombe su Mosul riassume le trasformazioni del Medio Oriente e il suo esito potrebbe avere conseguenze di lungo termine. Situata nel Nord dell’Iraq, con una popolazione di circa 700 mila anime divisa quasi a metà fra sunniti e curdi, Mosul è la più grande città dello Stato Islamico (Isis). E’ da qui che Abu Bakr al-Baghdadi annunciò il 29 giugno 2014 la creazione del Califfato: difenderla per i jihadisti è prioritario al punto che proprio al-Baghdadi la definisce «il cuore del Califfato» ordinando di «combattere fino alla morte» ai suoi miliziani, stimati fra 5000 e 10 mila unità. Il governo iracheno di Haydar al-Abadi la vuole riconquistare con l’intento opposto ovvero «estirpare il cancro di Isis dalla nostra nazione» e Barack Obama lo sostiene, con uomini e armi, per assestare un colpo mortale al Califfato prima di lasciare la Casa Bianca.

Ma il campo di battaglia dello scontro che incombe descrive uno scenario assai più vasto che rispecchia la sovrapposizione di interessi e potenze rivali. A Sud di Mosul, nella base di Qayyarah, c’è il quartier generale delle truppe irachene affiancate da contingenti di Stati Uniti e Francia. Il Pentagono ha qualche centinaio di militari anti-terrorismo, più aerei e droni mentre Parigi schiera l’artiglieria. Ciò significa che americani e francesi vogliono dare alle truppe di Baghdad il sostegno tattico decisivo per espugnare la città, puntando a trasformare la liberazione di Mosul nel maggior successo terrestre della coalizione anti-Isis finora assai carente nei risultati.

È una scelta condivisa da altri alleati, inclusa l’Italia che protegge la diga di Mosul. Ma poiché Baghdad è guidata da un governo molto sensibile agli interessi di Teheran, fra i contingenti schierati attorno alla città ci sono migliaia di volontari di milizie sciite che rispondono in ultima istanza agli ordini di Qasem Soleimani, il generale iraniano alla guida della Forza Al-Qods diretta espressione dell’ayatollah Ali Khamenei. Il Pentagono ha chiesto a Baghdad di impiegare le milizie sciite solo nelle «aree rurali» per evitare che l’entrata nei quartieri sunniti o curdi inneschi faide interetniche. I leader sunniti di Mosul, come l’ex governatore Atheel al-Nujaifi, avvertono: «L’assalto alla città può innescare la disintegrazione dell’Iraq» con la definitiva separazione fra sunniti, sciiti e curdi.

Ma non è tutto perché le forze che concretamente cingono d’assedio – a Nord, Sud ed Est – Mosul sono i peshmerga curdi espressione del Governatorato del Kurdistan iracheno che vogliono da un lato sconfiggere il Califfato e dall’altro assicurarsi il controllo di quartieri e popolazione curda, ipotecando così l’estensione dei propri territori alla provincia di Ninive. In alcune aree le trincee curde e jihadiste sono separate da poche centinaia di metri, evocando la Prima Guerra Mondiale, e sul lato peshmerga i combattenti si alternano a fabbri, panettieri, autisti e impiegati pubblici dando l’immagine di un esercito di popolo.

Ad osservare con timore il posizionamento di curdi e sciiti a ridosso di Mosul sono le truppe di Ankara, che alle pendici del Monte Bashiqa hanno cinquecento uomini, sostenuti da tank e blindati, e addestrano proprie milizie sunnite irachene. Per la Turchia di Recep Tayyp Erdogan la città di Mosul – che per circa 500 anni è stata dominio ottomano – deve «restare sunnita», come spiega l’analista Aykan Erdemir, per evitare lo scenario che teme di più: la nascita di un Kurdistan indipendente ai propri confini meridionali. La conseguenza è nella volontà di Erdogan di partecipare all’attacco a Mosul per ipotecarne la spartizione mentre il governo di Baghdad vi si oppone con tutte le forze, temendo la nascita di un protettorato sunnita sotto l’influenza turca.

Ecco perché la sorte di Mosul è un crocevia del Medio Oriente: sono in gioco la sorte del Califfato, l’unità dell’Iraq, il sogno del Kurdistan, la creazione di sfere di influenza turca e iraniana, la credibilità della coalizione occidentale anti-Isis e una buona parte dell’eredità strategica di Obama. Senza contare il rischio, secondo stime Onu, di una marea umana di profughi. Nulla da sorprendersi se un giocatore di poker come il leader russo Vladimir Putin rimane alla finestra dalle sue basi nella confinante Siria, puntando a sfruttare qualsiasi imprevisto.

Fonte: www.lastampa.it

16 ottobre 2016

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