Dario Fo, un prosciutto e una Marcia della Pace


Piero Piraccini


E’ trascorso poco meno di mezzo secolo da quando ho incontrato per la prima volta Dario Fo. In una delle tante case del popolo che, allora, facevano la cultura di un paese.


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E’ trascorso poco meno di mezzo secolo da quando ho incontrato per la prima volta Dario Fo. In una delle tante case del popolo che, allora, facevano la cultura di un paese. Fo invitò il fior fiore della cultura dell’epoca, quella popolare, ad assistere alle prove del Mistero Buffo, monologhi ispirati ad alcuni episodi biblici e alla vita di Gesù tratta soprattutto dai vangeli apocrifi. Ci spiegò da dove nasceva la sceneggiatura dello spettacolo e con quale lingua l’avrebbe rappresentata. Era una novità assoluta sia la vicinanza di una persona famosa come lui a gente comune come noi, sia il linguaggio usato: il grammelot, suoni onomatopeici che avevano molto di padano.

Poi nello stesso locale presentò lo spettacolo vero e proprio. Un tripudio anche perché per la prima volta l’uomo attore non stava su un irraggiungibile palcoscenico, ma su un palco alto appena mezzo metro sul pavimento, e perché non c’erano quinte che rimandassero a qualcosa di misterioso. Quel tripudio, però, fu attraversato anche da alcuni distinguo perché la narrazione di Fo non si esimeva dalla contemporaneità, e parte di chi lo aveva accolto in quella sede sì sentì preso di mira perché – erano gli anni di poco posteriori al ’68 – la cultura della sinistra, quella comunista in particolare, era messa sottilmente in discussione in quello spettacolo.

Al termine si pose il problema della cena, perché gli attori non recitano a stomaco pieno. Solo che a quell’ora ormai tarda – le discussioni seguite allo spettacolo furono abbastanza lunghe – i locali erano ormai chiusi. A me scappò di dire che a casa avevo un prosciutto. Fo – gli sembrò una cosa naturale – disse: “Bene, andiamo a mangiare da te”. Solo che c’erano, per me, due grandi problemi. L’uno era che la mia era una casa molto modesta e, comunque, troppo piccola per ospitare più persone e poi, il mattino dopo mio padre – di professione carpentiere – doveva alzarsi presto e il rumore che avremmo prodotto lo avrebbe sicuramente svegliato. L’altro – forse più importante del primo – era che la mia famiglia poteva contare su un unico prosciutto per l’intero anno. Non c’era proprio la disponibilità di poterne comprare un altro. Dopo essermi schermito trovando le scuse più improbabili, girovagammo un po’ per Cesena finché trovammo una pizzeria ancora aperta. Entrammo – stava chiudendo – e chiedemmo di poter mangiare. La cuoca, guardando Fo disse: “Ma come assomiglia a Dario Fo!”. Alla risposta che lui era Dario Fo, lei in modo imperturbabile ribatté che non poteva essere vero. Però si mangiò tutti una pizza.

L’ultima volta che l’ho incontrato di persona è stato in occasione di una Marcia della Pace. Sono andato a trovarlo a casa sua, vicino a Cesenatico. C’era anche la moglie Franca, la casa stracolma di tutto e le pareti coperte dai suoi dipinti dai colori vivaci. Gli chiesi se poteva presentare il suo spettacolo su San Francesco (era ancora in formazione) ad Assisi nei giorni della Marcia. Rispose di sì. La cosa effettivamente avvenne, ma non senza polemiche, come succedeva spesso quando affrontava temi religiosi, ma no solo quelli. Il suo genio lo portava ad affrontare avvenimenti attuali o a rileggere fatti antichi con lo spirito di una persona totalmente libera e la libertà porta anche allo scontro. Ora Dario Fo non c’è più. Non mi piace incensarlo. Con immensa modestia, dico che non tutto mi ha convinto della sua storia, soprattutto quella politica, ma le parti che mi hanno convinto sono di gran lunga più importanti, Sì, sono contento di averlo conosciuto in un paio di occasioni.

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