Il pacifista e il generale
Emanuele Giordana - Lettera22
Vincenzo Camporini, a colloquio con i responsabili della Tavola della pace, gli organizzatori della Perugia Assisi. Due mondi sempre distanti si parlano scoprendo di avere in comune qualcosa.
C'è un grande assente all'incontro che, per la prima volta, vede la più alta carica militare italiana, il generale Vincenzo Camporini, a colloquio con i responsabili della Tavola della pace, gli organizzatori della Perugia Assisi, la più famosa camminata del pacifismo italiano. E' la politica il convitato di pietra che, sia il generale, sia Flavio Lotti, coordinatore della Tavola, evocano più volte. Una politica che, dice Lotti, “scarica le responsabilità sui militari” quando non sa come risolvere le crisi internazionali in cui si trova coinvolta. Una palla che Camporini raccogliere senza esitazioni, citando un aneddoto dei tempi delle guerre balcaniche quando un ministro o un sottosegretario chiese ai militari riunti per la bisogna: “Generali. Fate qualcosa…”
Quel qualcosa aleggia come uno spettro nella sala che Libera, l'associazione di lotta alla mafia dove sono esposti i beni confiscati alle cosche, ha messo a disposizione per un incontro un po' più che storico. Perché, nonostante le bordate che i pacifisti tirano al soldato (la spesa per la Difesa, l'orrore della guerra, la corsa agli armamenti) e nonostante le puntualizzazioni del generale, l'incontro suona come qualcosa di molto di più che una semplice annusata tra mondi diversi o una furbata, dell'uno o dell'altro, per farsi pubblicità. Alla viglia della Perugia Assisi (domenica), Camporini tende una mano e dice che se la politica non riesce a risolvere le crisi e non può sperare che le risolvano al suo posto i soldati, la presenza dei civili nei teatri di conflitto è non solo auspicabile ma necessaria: “Le forze armate da sole non bastano” specie se, chiarisce, ci mandano a svolgere “compiti impossibili” che, da soli, i militari non possono risolvere.
Dalla platea si levano domande diverse: Licio Palazzi dell'Arci chiede a Camporini cosa pensa dei tagli di bilancio per il servizio civile, altri domandano come si concilia un esercito con le attività di cooperazione civile, Lotti ribadisce che “le mie convinzioni non le mollo” ma, quel che è certo, è che il generale non si sente assediato. Non c'è un clima da fossa dei leoni ma un'atmosfera anni fa impensabile. Per entrambi, soldati e pacifisti, sembra un primo passo cui far seguire altri incontri “sulle cose specifiche, dice Camporini, perché parlar di tutto è come parlar di nulla”. Sugli strumenti, le priorità, il concetto di sicurezza, argomenta Lotti. Niente abbracci ma una stretta di mano suggella un incontro “anomalo” ma forse proprio per questo singolarmente efficace.Un avvicinamento importante. Finora civili e militari non solo si sono incontrati raramente, ma hanno sempre litigato su più questioni né la politica si è mai molto preoccupata del rapporto tra soldati e quella che si chiama “società civile”. Incontri difficili, tanto più nei “teatri”, cioè durante un conflitto. Una delle diatribe ancora lontana da una soluzione è quella che riguarda lo “spazio umanitario” o, per dirla in altre parole il ruolo umanitario, cioè l'assistenza alle vittime dei conflitti. Secondo la teoria classica, quella che fu creata da Henry Dunant il padre dell'umanitarismo, questo spazio deve essere neutrale, imparziale e indipendente. Va da sé, dicono i suoi eredi, che non può essere occupato da un militare che, se aiuta la popolazione civile, lo fa di solito per ricavarne informazioni utili al contingente. I due ruoli, insomma devono rimanere distinti. I militari (e gli italiani più di altri), sono invece convinti che l'aiuto umanitario possa, anzi debba, far parte della loro presenza nel teatro, della loro missione. Questo intervento viene rivendicato come parte di quella diversità italiana di cui vanno orgogliosi. Ma molti sono i critici di questa posizione. Si tratta – dicono – di una pericolosa confusione di ruoli, che schiaccia la neutralità del medico che cura le ferite e lo apparenta all'esercito occupante di turno. E tuttavia su questa ambiguità sono nati in Afghanistan e in Iraq, i Provincial Reconstruction Team (Prt) unità civili-militari che, attraverso cellule specializzate (Cimic) sono a metà tra un avamposto militare e un ufficio di cooperazione di prima emergenza.
Il generale Marco Bertolini già capo di Stato maggiore di Isaf in Afghanistan difende questa posizione. “Se un militare interviene all'estero per riportare la pace non lo si può staccare dal contesto generale. E proprio in Afghanistan si è cercata una collaborazione con i civili, pur rispettando la neutralità delle Ong che fa parte del loro statuto e che noi rispettiamo. Ma ciò non vuol dire che lo sforzo del militare possa venir 'incapsulato', isolato”.
Non è d’accordo Nino Sergi presidente di Intersos, una delle più attive Organizzazione non governative presenti in Afghanistan:“Credo che in Afghanistan le operazioni dei militari definite umanitarie in realtà siano funzionali alle strategie del contingente e questo è l'esatto contrario della neutralità e dell'imparzialità. Un esercito è, per forza di cose, di parte. Ciò finisce a creare un'ambiguità nociva soprattutto per gli umanitari”. Ma Sergi ricorda anche l'esperienza del Libano dove è stato creato un Tavolo di coordinamento tra Ong, militari, ambasciata che è stato forse uno dei primi tentativi di definire ruoli e comportamenti. Piccoli passi. Ma problemi ancora aperti.
Fonte: Lettera 22
12 maggio 2010
****
Articolo di: Ritanna Armeni Emanuele Giordana
Fonte: Lettera 22
Che il generale Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore della Difesa, vada nella sede di Libera, l'associazione contro le mafie di Don Ciotti, non è cosa che accada tutti i giorni. Ma c’è un’altra più importante notizia. Ci andrà per incontrare, alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, il direttivo della Tavola della pace, l'associazione più nota tra i pacifisti italiani, quella che organizza da qualche lustro la camminata pacifista forse più nota al mondo. Il diavolo e l'acqua santa? Una provocazione? O semplicemente il segno che i tempi stanno cambiando?
Aver accettato l'invito dei pacifisti italiani, o almeno di una rappresentativa parte di quel mondo, indica che qualcosa è cambiato, che due mondi fino a ieri diversi e antagonisti si annusano e si vogliono conoscere. Quel che ne verrà fuori – se scontro o dialogo – si vedrà.
L'incontro di martedi 11 è solo un segno dei tempi. Se i pacifisti italiani si interrogano sui militari, è evidente che anche i soldati non sono più quelli di un tempo. Lo rivela l'inchiesta che inizia con questo articolo.
Tutto è nato da uno zaino. Lo zaino di un soldato in partenza per l’Afghanistan. Lo aveva aperto davanti a noi in aeroporto per tirarne fuori guide, romanzi, saggi sul paese che stava per raggiungere in “missione di pace”. Quello zaino rompeva uno schema e cancellava uno stereotipo. Chi lo portava non era il militare rozzo e incolto che avevamo visto in tanti film di guerra, carne da macello e inconsapevole esecutore di scelte tragiche, inviato in un paese di cui non conosceva nulla.
E allora sono cominciate le domande . Chi era allora il soldato che andava in guerra nel mondo globalizzato dove i conflitti sono asimmetrici e l’esercito in divisa si scontra con nuovi spesso inafferrabili nemici? Chi era il militare che non deve più difendere i confini nazionali dall'invasore ma – se mai – deve tutelare interessi economici planetari o – stando alle parole degli stessi militari – valori universali, quali pace, convivenza civile, sicurezza globale? E ancora: quanto è diverso il militare di oggi, che sceglie un lavoro cui accede per concorso o riceve una paga cospicua se impiegato all’estero, da chi era costretto alla leva obbligatoria? E – infine – che differenza c’è fra le battaglie di ieri, che per dirla con Fabio Mini definivano un “tempo di guerra”, e quelle di oggi che si svolgono “nel tempo della guerra”?
Se si guarda alle Forze armate italiane le differenze in pochi anni sono diventate talmente profonde che si parla senza reticenze di una rivoluzione. Lunga, silenziosa in gran parte sconosciuta, ma imponente. Lo affermano con una punta di orgoglio generali e soldati. Lo conferma lo stesso Vincenzo Camporini che, pur avendo le doti del grande comunicatore, certamente non ama la retorica. E che ammette; “I cambiamenti dall'89 sono stati tanti che si può parlare di rivoluzione” .
Naturalmente l’affermazione può essere accolta con diffidenza. Le guerre ci sono e, per quanto un esercito possa essere cambiato, ci sono le vittime. Spesso innocenti. Tuttavia il cambiamento, per quanto sicuramente denso di limiti e ambiguità, è evidente. Quel soldato carico di libri e la testa piena di curiosità, che parte “in missione di pace” sia pure in una zona di guerra, ha un volto ed un’ ideologia diversa da quella del passato. E allora, con tutta la prudenza e quella vigile diffidenza che deriva da una cultura antimilitarista e pacifista così largamente diffusa nel mondo e in Italia, vale la pena di indagare quel cambiamento. E per non farsi ingannare dalle sensazioni, cominciare dai dati oggettivi.
Fino al 1989 le Forze armate costituivano una barriera difensiva nel caso di una invasione dell’Armata rossa. La guerra, per quanto fredda, richiedeva un esercito e un nemico. Dopo il 1989 il nemico però scompare e la difesa del suolo patrio non può più essere il collante ideologico delle Forze armate. Era necessario un nuovo ruolo, una nuova ideologia, comportamenti diversi dal passato. Il cambiamento è stato per così dire obbligato dal rivolgimento del mondo. L’esercito del passato è crollato col muro di Berlino.
In secondo luogo dal 2004 è cambiato l’arruolamento. Non più di leva obbligatoria, tributo che ogni giovane – maschio – doveva pagare. La scelta del servizio militare è diventata volontaria. Chi la compie soprattutto al sud è spinto dalla disoccupazione. Ma alla ricerca del lavoro si aggiunge quella del ruolo: il desiderio di trovare senso e ordine alla propria esistenza. “I giovani – affermano i comandanti – vengono da noi spesso perché non hanno altre possibilità, ma ci restano perché trovano un luogo nel quale coltivano interessi e ideali”.
Il terzo cambiamento strutturale è il livello culturale di chi sceglie di lavorare nelle Forze armate. I soldati, laureati o diplomati, conoscono le lingue, hanno interessi e spirito critico. Vengono addestrati, ma non solo, all’uso delle armi. Li affiancano psicologi e insegnanti di lingue. Una leva di giovani molto diversi da quelli che, secondo Angelo Del Boca, durante la guerra di Libia “ vedevano gli avversari come bestie”.
Ma la vera novità è costituita da un collante ideologico che permea la vita nell’esercito. Paradosso dei paradossi il collante ideologico è oggi la pace Il militare italiano si vive e si concepisce come soldato di pace. Questa è la sua missione, il motivo per cui, carico di libri, va in Libano, in Afghanistan, Kossovo. Conquistare la pace, preservarla conservarla, difenderla: è da questa convinzione, non sappiamo quanto profonda o imposta, sicuramente proclamata, che discendono comportamenti e approccio sul terreno. Da questa convinzione nasce la cosiddetta “diversità italiana” e il nocciolo duro di quella che è chiamata “rivoluzione”. E’ in effetti che cosa ci può essere di più rivoluzionario rispetto ai millenni passati di un soldato che non ha nemici e dice di lottare per la pace?
11 maggio 2010