“Libertà per Gaza” ha un altro significato
Amira Hass – HAARETZ
Gaza Freedom March. Vari modi per manifestare: Degli hippy ultracinquantenni e ultrasessantenni saltellano, gli italiani cantano "Bella Ciao," e gli attivisti sudafricani spiegano uno striscione che chiede sanzioni per Israele e cita Nelson Mandela: "La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi".
La partenza da Ramses Street al Cairo, con circa 20 bus, è stata fissata per la mattina di lunedì 28 dicembre. Tuttavia gli organizzatori e le organizzatrici della Gaza Freedom March sanno che i bus non arriveranno. Proprio come la domenica notte, i bus noleggiati da un gruppo di attivisti/e francesi non sono mai arrivati al loro punto di partenza – la via Charles de Gaulle del Cairo, vicino all’Ambasciata francese e in diagonale con lo zoo.
Nella settimana precedente alla marcia, il ministro degli esteri al Cairo ha chiarito che ai manifestanti non sarebbe stato permesso di entrare a Gaza. Anche i battelli sono misteriosamente scomparsi dal Nilo sabato sera.. Le autorità egiziane sapevano che decine di attivisti e attiviste intendevano imbarcarsi e accendere candele per segnare il primo anniversario dell’attacco di Israele su Gaza e le 1400 persone uccise.
Un totale di 1361 persone sono venute al Cairo da 43 paesi per partecipare alla Gaza Freedom March, 700 solo dagli Stati Uniti, molte di più di quante previste inizialmente. Era partita come una piccola iniziativa. Poi il gruppo femminista e pacifista Codepink la fece propria, e gradualmente si estese ad altri paesi.
Portare Gaza al Cairo
“Se non potremo andare a Gaza, porteremo Gaza al Cairo”, diceva un attivista pacifista americano. E davvero, per una settimana intera più di mille cittadini/e stranieri, la grande maggioranza proveniente dai paesi occidentali, corrono qua e là per la capitale egiziana a cercare vie e posti per manifestare contro il blocco di Gaza.
“Le manifestazioni al Cairo sono la prova definitiva che Israele ha fatto pressioni sull’Egitto per non permettere l’entrata a Gaza”, diceva un cittadino egiziano (che come altri egiziani, non osava partecipare alle manifestazioni, per paura di punizioni). “Perché l’Egitto deve prendersi questo mal di testa? Sarebbe stato più facile e più semplice mandarli tutti a Gaza e lasciarli perdere”.
Non essendo arrivati gli autobus, gli attivisti francesi sistemano tende e sacchi a pelo fuori dell’ambasciata. Alle 2 di notte, scoprono che il camping è stato circondato da una recinzione e da un fitto cordone di polizia antisommossa. Tende, una barriera di poliziotti, restrizioni di movimento, e un’area sotto assedio. Senza averlo programmato, replicavano la situazione di Gaza in particolare e la situazione palestinese in generale. Resistere alle condizioni di assedio diventa scopo e sfida.
Durante i due o tre giorni successivi, il cordone si intensifica, da una fila di poliziotti a tre. Di ora in ora, gli attivisti discutono di come andare avanti; è la democrazia diretta in azione. Senza segreti, senza ordini dall’alto, senza gerarchie.
Un’operazione simile si dispiega in vari posti attorno al Cairo. Alcuni attivisti scoprono che la polizia circonda i loro hotel, bloccandoli all’uscita. Parecchi dimostrano di fronte alle loro rispettive ambasciate – e sono immediatamente circondati dai poliziotti antisommossa. I più violenti sono quelli assegnati all’ambasciata americana.
Di chi è la colpa?
Un gruppo numeroso si è installato sotto gli uffici dell’UNDP (United Nations Development Program). “Con la nostra presenza qui, noi diciamo che non diamo la colpa all’Egitto. La responsabilità del vergognoso e osceno assedio israeliano di Gaza è interamente dei nostri paesi”, ha spiegato uno degli organizzatori.
Questo suona come una risposta a un’accusa espressa perlopiù dai sostenitori di Fatah e dell’Autorità palestinese a Ramallah: con l’incoraggiamento di Hamas, la pressione popolare internazionale in particolare araba viene diretta all’indirizzo sbagliato – l’Egitto, anziché Israele. Alcuni degli organizzatori hanno detto che avevano davvero l’impressione che Hamas non fosse affatto interessato a manifestare al varco di Erez verso Israele, che è quasi sigillato, ma piuttosto al valico di Rafah verso l’Egitto.
Il sogno era di avere decine di migliaia di persone in marcia verso il punto di attraversamento di Beit Hanun/Erez al primo anniversario dell’offensiva delle Forze di Difesa di Israele (IDF), al fine di chiedere che Israele e il mondo tolgano l’assedio. Gli aspiranti partecipanti sono un gruppo molto vario: vi sono attivisti e attiviste di sinistra da decenni, mentre altri e altre si sono uniti solo durante la stessa campagna di Gaza. Studenti e pensionati/e, docenti universitari, poveri, persone giovani e anziane.
Fra gli attiviste e attivisti più anziani vi è Hedy Epstein, 85 anni, una cittadina americana tedesca di nascita a che ebbe salva la vita quando i suoi genitori ebrei la mandarono in Inghilterra quando aveva quattordici anni. Più tardi morirono a Auschwitz. Lei si è seduta su una sedia sotto il palazzo che ospita gli uffici dell’ UNDP, con quelli in sciopero della fame, per protesta contro la proibizione di entrare a Gaza. Degli hippy ultracinquantenni e ultrasessantenni saltellano nelle vicinanze, gli italiani cantano “Bella Ciao,” e gli attivisti sudafricani spiegano uno striscione che chiede sanzioni per Israele e cita Nelson Mandela: “La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.
Madri ebree
“Penso di fare qualcosa per Israele, per il suo futuro,” dice un giovane barbuto di Boston, che è stato volontario in un villaggio palestinese in Cisgiordania. Sua madre, che è ebrea, lo ha accompagnato in uno dei suoi voli a Israele per dare uno sguardo alla sua nuova vita. Quando sono atterrati, hanno appreso che il suo nome era su una lista del Controllo di frontiera all’aeroporto, e madre e figlio sono stati tenuti in stato di fermo e interrogati per otto ore.
“Lei è venuta fuori di lì che era una radicale”, dice ridendo il giovane, il quale ha scoperto un anno e mezzo fa il discorso alternativo circa la sua “seconda patria”.
Un regista di documentari venezuelano dice: “l’ottanta per cento dei partecipanti che ho intervistato a caso sono ebrei”. Ottanta per cento è probabilmente una esagerazione, benché una buona percentuale delle persone presenti sia di ebrei. La folla colorata include anche palestinesi che sono cittadini di paesi occidentali, alcuni di loro di Gaza che sperano di vedere i parenti per la prima volta da anni. Ci sono anche religiosi cristiani e musulmani. Alcuni degli slogans sono estremamente ambiziosi, come “Siamo venuti a liberare Gaza”.
Ma nell’insieme, questo complesso variegato echeggiava un messaggio di pacifismo e femminismo militante, le teorie della liberazione e molta fede nell’effetto positivo, cumulativo, dell’azione popolare, non gerarchica, e nella sua capacità di portare a un cambiamento.
È un peccato, pensavo tra me. Gli egiziani ci impediscono di vedere che cosa succede quando questa democrazia diretta, trasparente incontra il regime di Hamas.
Il lunedì sera, i dimostranti apprendono che, su richiesta della moglie del presidente, Suzanne Mubarak, 100 persone avranno il permesso di entrare nella Striscia di Gaza. Molti considerano questo un modo per spezzare la solidarietà dei dimostranti e diminuire le pressioni sull’Egitto. Alla fine, il 30 dicembre, si mettono in viaggio con gli autobus circa 80 persone, tra cui vari giornalisti che non sono toccati dal dilemma.
A mezzanotte, circa 12 ore dopo aver lasciato Il Cairo, arriviamo a un hotel di Gaza. Lì ci aspetta la prima sorpresa: un funzionario della sicurezza di Hamas in abito civile piomba su un amico che è venuto a prendermi per una visita, annunciando che gli ospiti non possono stare in case private.
La storia gradualmente si chiarisce. Gli organizzatori internazionali della marcia l’hanno coordinata con la società civile, le varie organizzazioni non-governative, che dovevano anche coinvolgere il Comitato Popolare per Rompere l’Assedio, una organizzazione semiufficiale affiliata a Hamas. Molti attivisti europei hanno relazioni di lunga data con le organizzazioni di sinistra della Striscia di Gaza. Quelle organizzazioni, in particolare il relativamente grande Fronte Popolare, avevano organizzato la sistemazione per centinaia di ospiti in case private. Quando il governo di Hamas è venuto a saperlo, ha proibito il trasferimento. “Per ragioni di sicurezza.” Che altro?
Ancora “per motivi di sicurezza,” evidentemente, il giovedì mattina gli attivisti scoprono un cordone di duri uomini della sicurezza di Hamas dalla faccia arcigna che li bloccano all’uscita dall’ albergo (che è di proprietà di Hamas). I funzionari della sicurezza accompagnano gli attivisti nelle visite nelle case e alle organizzazioni.
Durante la marcia stessa, quando i gazani che stanno a guardare dai lati cercano di parlare con i visitatori, i duri uomini della sicurezza dalla faccia arcigna li bloccano. “Non vogliono che parliamo con la gente comune,” conclude una donna.
Dirottati o poco organizzati?
La marcia non è stata quello che gli organizzatori avevano sognato durante i nove mesi di preparazione. Il giorno prima del viaggio a Gaza, sapevano già che le organizzazioni non governative si erano tirate indietro. Alcune persone hanno detto che i rappresentanti del governo di Hamas avevano ritenuto che le ONG non avessero un programma chiaro, organizzato per gli ospiti, e perciò avevano preso l’iniziativa. Un attivista palestinese insiste: “Quando abbiamo sentito che sarebbero stati solo 100, abbiamo cancellato tutto”.
Un altro dice, “Fin dall’inizio, Hamas ha posto condizioni: non più di 5000 marciatori, nessun avvicinamento al muro e alla recinzione, come fare i discorsi, quanto lunghi dovevano essere i discorsi, chi vuole fare discorsi. In breve, Hamas ha dirottato da noi l’iniziativa e noi abbiamo ceduto”.
Hamas, o il suo Comitato Popolare, hanno portato 200 o 300 persone a marciare. La marcia si è trasformata in niente di più che un rituale, un’opportunità per i ministri del governo di Hamas di avere una decente copertura mediatica in compagnia dei manifestanti occidentali. Particolarmente fotogenici erano quattro americani del gruppo ebraico ultraortodosso antisionista Neturei Karta, che si erano uniti al viaggio solo a Al Arish. Non ci sono donne palestinesi fra i marciatori – uno schiaffo alle molte organizzatrici e partecipanti femministe, uomini e donne.
Dopo la marcia, gli ospiti hanno dato voce alle proteste con alcuni degli organizzatori palestinesi ufficiali. “Siamo venuti per manifestare contro l’assedio, e abbiamo scoperto che noi stessi eravamo sotto assedio,” hanno detto. I loro variegati colori e la trasparenza del loro comportamento non si confacevano alla disciplina militare che gli ospiti ufficiali hanno cercato di imporre. I funzionari hanno ascoltato, e dopo che le redini si sono un po’ allentate, ho potuto andare in visita a casa di amici.
Là le persone mi hanno descritto la persistente paura del furioso assalto israeliano. Sabato, alle 11.30 del mattino. – l’ora dei primi bombardamenti aerei – rimane oggi un’ora sensibile per molti bambini. Così come i temporali, o le interruzioni dell’elettricità (un fatto quotidiano) o un drone persistente che vola in alto causano angoscia ed evocano ricordi d’incubo.
Ad alcune delle persone in marcia è stato ora permesso di andare fori da soli, con i conoscenti di Gaza che in precedenza avevano conosciuto solo per telefono e per e-mail. Alcuni, in particolare i parlanti arabo, lamentano che “un’ombra sotto forma di un uomo della sicurezza” continuava ad accompagnarli. In rapidi tour “safari” dei quartieri bombardati, attraverso le finestre dei bus, vedono le macerie non ancora sgombrate, come il complesso degli edifici governativi distrutti dai bombardamenti che sono ancora in piedi – brutti scheletri di cemento con stanze vuote e senza pareti, come bocche urlanti.
Negli incontri senza gli uomini della sicurezza, molti attivisti e attiviste hanno l’impressione che i residenti non-Hamas vivano nella paura, e abbiano timore di parlare o di identificarsi per nome. “Ora capisco che l’appello ‘Libertà per Gaza’ ha un altro significato”, mi dice un giovane uomo.
I partecipanti trascorrono il giovedì e il venerdì nella Striscia di Gaza. Venerdì, 1 gennaio, è il 45° anniversario della fondazione di Fatah. Il governo di Hamas non permette alla organizzazione rivale di riunirsi, esattamente come l’AP non permette a Hamas di riunirsi in Cisgiordanaia. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh si congratula con Fatah nel suo anniversario, ma nello stesso tempo i servizi di sicurezza di Hamas fanno tutto il possibile per scoraggiare gli attivisti e le attiviste del movimento dal pensare anche solo a una celebrazione.
Centinaia di attivisti di Fatah vengono fermati dalla polizia e tenuti in semi-detenzione per parecchie ore, fino alla sera. Funzionari della sicurezza entrano nelle case in cui vi sono candele accese o sventolano bandiere di Fatah per marcare l’anniversario. In una casa, i funzionari della sicurezza cercano di arrestare due persone, e la madre tenta di bloccarli. Un poliziotto l’avrebbe colpita – e lei ha un attacco di cuore e muore.
Mi chiedo: le restrizioni sono state un ordine dall’alto, o una incauta interpretazione da parte dei ranghi inferiori? Hamas pensa di poter impedire del tutto ai pochi visitatori – chiaramente pro-palestinesi – di sentire le versioni non ufficiali? Non si rendono conto coloro che danno gli ordini di che cattiva immagine creavano? O c’era veramente una preoccupazione per la sicurezza?
Qualcuno che, a dir poco, non è un fan di Hamas, mi ha spiegato che i giovani uomini che abbandonano Iz al-Din al-Qassam per l’amorfa milizia Jaljalat sono un vero mal di testa. Sono una scusa conveniente per restringere i contatti con “chiunque”, ma la paura che possano cercare di recare danno ai visitatori per danneggiare Hamas è reale.
Questi sono giovani devoti che, ufficialmente, criticano Hamas perché non impone la legge religiosa islamica nella sua interezza. Tuttavia, come dice il critico, “in modo inconsapevole, a causa delle loro vite perdute, delle nostre vite perdute, sono arrabbiati con il mondo intero”.
Poscritto: dopo due giorni tutti i visitatori, compresi i giornalisti, hanno dovuto lasciare Gaza. Secondo Hamas, è stata una esplicita richiesta egiziana. Ufficiali egiziani l’hanno confermato.
Editoriale di Amira Hass (Haaretz, 8 gennaio 2010, tradotto molto gentilmente da Anna Cinato delle “Donne In nero” di Torino