L’economia dopo gli anni Zero


Mario Pianta


Se oggi state peggio dell’anno scorso – e per quasi tutti nei paesi ricchi è così, con i redditi scesi del 4,3 per cento in Europa, disoccupazione al 10 per cento, precarietà dilagante – provate a ricordare come si stava dieci anni fa…


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L'economia dopo gli anni Zero

Se oggi state peggio dell'anno scorso – e per quasi tutti nei paesi ricchi è così, con i redditi scesi del 4,3 per cento in Europa, disoccupazione al 10 per cento, precarietà dilagante – provate a ricordare come si stava dieci anni fa. Meglio di oggi, secondo Paul Krugman e Floyd Norris. Sul New York Times dei giorni scorsi proponevano di chiamare il decennio passato "gli anni zero", un periodo in cui negli Stati Uniti il reddito medio delle famiglie è diminuito pesantemente, i posti di lavoro non sono aumentati e per la prima volta nella storia sono calati nel settore privato. Quanto ai patrimoni, i valori delle case sono tornati a quelli di dieci anni fa e la borsa ha perso il 12 per cento; se teniamo conto dell'inflazione la caduta arriva addirittura al 30 per cento. Nemmeno negli anni trenta della grande depressione i valori azionari avevano registrato una caduta nel decennio.
E in Italia? Il Prodotto interno lordo, in termini reali, oggi è pari a quello del 2001, rispetto a dieci anni fa la produttività del lavoro è immutata, redditi pro capite e salari sono diminuiti, l'occupazione anche, il rapporto debito pubblico/Pil è risalito ai livelli di quindici anni fa, le entrate tributarie (al netto dei condoni) per la prima volta registrano un calo in valore assoluto. La crescita delle quotazioni azionarie tra 1999 e 2009 è stata in Italia del 2,1 per cento in media l'anno, al di sotto del tasso d'inflazione. La capitalizzazione di borsa italiana è stata superata da quelle di Cina, Brasile, Spagna e Corea del Sud. Un decennio che in Italia potremmo chiamare gli "anni sottozero".
Che fare allora, all'alba degli anni dieci? Un'altra eco degli anni trenta viene da Krugman, che riabilita nientemeno che il protezionismo, in chiave anti-cinese. In presenza di disoccupazione interna e di esportatori cinesi con un cambio sottovalutato, il protezionismo aiuterebbe a evitare che il deficit commerciale Usa verso la Cina provochi 1,4 milioni di posti di lavoro persi in due anni. Una tesi (o un pentimento?) non da poco per chi ha vinto il Nobel con la nuova teoria sui vantaggi del libero commercio internazionale.
Ma non saranno le esportazioni in mercati globali ancora in crisi a farci uscire dalla crisi. Piuttosto, si dovrebbero affrontare i nodi strutturali dell'economia. Innanzi tutto regolare, tassare e ridimensionare la finanza per ridare centralità all'economia reale. Poi, dal lato della domanda, redistribuire redditi e potere d'acquisto dai ricchi ai poveri, sia all'interno dei paesi che a scala internazionale, stimolando consumi (più sobri) e investimenti, e allargando la spesa per servizi pubblici. Infine, dal lato dell'offerta, la sfida è quella di sviluppare – attraverso nuove politiche industriali e tecnologiche – attività economiche capaci di usare lavoro qualificato ed essere sostenibili sul piano ambientale, ricordandoci delle lezioni di Copenhagen.

(Altre proposte di uscita dalla crisi potete trovarle sul sito
www.sbilanciamoci.info)

Fonte: il Manifesto

3 gennaio 2009

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