Olimpiadi, vigilia paranoica
Junko Terao
Nervi tesi a Pechino per la paranoia sicuritaria dopo che attivisti per i diritti umani hanno beffato i controlli. E sul web compare un video con il logo dei giochi in fiamme, firmato ‘Partito islamico del Turkestan’.
Grande fibrillazione a Pechino nelle ultime ore prima dell’inizio della tanto attesa, discussa e controversa inaugurazione olimpica. Polizia sul chi va là e coi nervi a fior di pelle per la paranoia sicuritaria, dopo che diversi attivisti per i diritti umani mercoledì hanno beffato le imponenti misure di controllo intorno alle “zone sensibili”, nella fattispecie piazza Tienanmen e lo stadio a nido d’uccello, riuscendo nell’impresa impossibile di issare bandiere tibetane e gridare slogan anti-Pechino. Ieri al centro stampa della zona olimpica è scattato e poi rientrato – e in seguito smentito dal comitato organizzatore dei Giochi – un allarme bomba. Intorno all’ora di pranzo pare sia arrivata all’organizzazione la voce di un sospetto ordigno a bordo di un bus, mentre centinaia tra giornalisti e addetti ai lavori, ignari di tutto, venivano bloccati al controllo elettronico con la richiesta di un pass speciale che nessuno possedeva. Come se non bastasse, ad aumentare la tensione si è aggiunto ieri un video apparso sul web in cui – secondo l’americano Site intelligence group, che controlla la propaganda integralista – un’organizzazione terroristica islamica minaccia attentati durante le Olimpiadi. Le misure di controllo, giudicate eccessive, hanno suscitato le proteste di quanti devono sottoporsi a iter lunghissimi per accedere all’area olimpica. Le auto vengono perquisite in lungo e in largo, ai guidatori al volante viene chiesto di bere dalle eventuali bottiglie trovate a bordo, per verificare che non si tratti di liquido velenoso o esplosivo. Anche diversi atleti si sono lamentati per i controlli all’aeroporto. Tuttavia, nonostante la macchina per la sicurezza messa in moto dal governo sembri addirittura esagerata, c’è chi è riuscito a raggirarla per ben due volte. Mentre i quattro impavidi del movimento “Students for a free Tibet” – due americani e due britannici che l’altro ieri erano riusciti a raggiungere lo stadio-simbolo dei Giochi cinesi – sono stati subito rispediti a casa, l’altro gruppetto di manifestanti ha tentato il bis. I tre militanti della Christian defence coalition e dell’associazione Generation Life, gruppi di antiabortisti statunitensi che mercoledì a piazza Tienanmen avevano inscenato una protesta contro la politica del figlio unico portata avanti dal governo e contro l’aborto forzato, sono stati fermati ieri mentre, non del tutto soddisfatti della prima manifestazione, replicavano, sempre nella blindatissima piazza, improvvisando una conferenza stampa davanti ad alcuni giornalisti presenti. “Siamo venuti qui oggi per parlare degli abusi contro i diritti umani da parte del governo cinese”, ha esordito Patrick Mahoney, il direttore della Christian defence coalition, che ha poi proseguito: “Siamo qui per essere la voce di quanti sono in prigione a causa del loro credo religioso”. Dopodichè i tre militanti cristiani hanno cominciato a pregare. I poliziotti cinesi, che il giorno prima si erano limitati a interrompere la manifestazione in miniatura lasciando andare i tre quasi immediatamente, ieri sono intervenuti per trascinarli via con la forza e impedire ai giornalisti di osservare e di riprendere con le telecamere la scena. Non arriveranno mai nella capitale del Celeste Impero, invece, tre attivisti per i diritti umani fermati ieri all’aeroporto di Hong Kong. Appena atterrato, Yang Jianli, residente negli Stati Uniti, è stato fermato insieme al compagno Zhou Jian. Stessa sorte è toccata a Wang Min, arrestato dalla polizia aeroportuale. Si tratta degli ultimi di una serie interminabile di casi di attivisti a cui è stato impedito l’ingresso nella Terra di mezzo. Proprio ieri l’organizzazione Chinese Human Rights defenders (Chrd) ha presentato a Pechino il suo primo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani: secondo Chrd nel corso dell’ultimo anno ci sono stati 428 casi di arresti arbitrari e 44 casi di tortura e, aggiunge, il 40% degli arrestati viene normalmente rinchiuso in carceri non ufficiali. In India e Nepal, dove per oggi sono attese imponenti manifestazioni pro-Tibet che dovrebbero portare in piazza circa trentamila persone, ieri ne sono scese per le strade 4mila a nuova Delhi e 2mila a Kathmandu per l’ennesima protesta contro Pechino.
Fonte: Lettera22 e il Riformista
8 agosto 2008