Il 25 di aprile di sedici anni fa


Piero Pieraccini


La sera del 22 aprile di sedici anni, a S. Giovanni in Persiceto, davanti alla folla che correva ad ascoltarlo,Padre Ernesto Balducci disse: “Ma vi immaginate voi un Parlamento del mondo? Con la proporzionale? Quale sarebbe il partito maggiore? Il partito degli affamati. Farebbero una legge pericolosa: niente democrazia”.


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Il 25 di aprile di sedici anni fa

A pochi giorni dall’inizio della guerra contro l’Iraq (l’altra guerra, non questa), sosteneva che le bombe su Bagdad rappresentavano non l’inizio della liberazione del Kuwait, ma “il lugubre avvio della guerra del Nord contro il Sud”. Che “l’età moderna finisce con il probabile genocidio nel Medio Oriente così come iniziò 500 anni fa col genocidio degli indios nel lontano Occidente”. I quali – l’aveva scritto Cristoforo Colombo- “non possiedono armi, non hanno spirito guerriero, vanno ignudi e indifesi e sono tanto vili che in mille non saprebbero affrontare tre dei miei uomini”. (Analoghe parole avrebbe, poi, pronunciato il marine statunitense Joe Queen che aveva sepolto decine di soldati iracheni sotto cumuli di sabbia: “Molti si spaventarono e questo mi divertiva”).
Concludeva, poi, che dopo Hiroshima era evidente ormai che “la guerra non ha più senso per il semplice fatto che non si vince più. Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude il conflitto che voleva chiudere: lo riapre in forme più nuove e terribili”.
Chiamava Grande Muraglia la protezione della nostra (felice?) porzione d’umanità che impedisce lo sguardo ai quattro quinti del pianeta formato da chi vive, ogni giorno, una sfida continua per la sopravvivenza. Ne esaminava le cause concludendo che era vero: il capitalismo reale è perverso in sè mentre “si dica quel che si vuole del comunismo, ma il suo pregio di fondo è stato proprio quello di avere portato le masse a muoversi, anche se misere ed incolte, per obiettivi internazionali” (mentre) “il rumore del famoso grido proletari del mondo unitevi, ha riempito la storia moderna di un ethos di cui anche la classe operaia ha perso la memoria”.
Uomo di religione, citava l’episodio della nave “Dorchester” colpita da un siluro tedesco nel 1943. Alcuni superstiti raccontarono che quattro persone, calme nell’affannarsi generale per la salvezza, avevano rifiutato le loro cinture di salvataggio a favore d’altri marinai. La nave andava a fondo e loro quattro, immobili, appoggiati al parapetto della nave, pregavano tenendosi per mano. Erano un rabbino, un sacerdote cattolico, due pastori evangelici. Che senso avrebbe avuto – si chiedeva – che le religioni discutessero per rivendicare ognuna la propria universalità dato che avevano assunto (tutte) come valore sommo la salvezza dell’uomo, anche mediante il dono della vita? Che farsene di religioni che servono solo come ancora di salvezza? “Dimostrino con i fatti che a generarle è stato non il timore, ma l’amore”. Per questo diceva che gli pesava la qualifica di cristiano, termine inventato ad Antiochia nel 43 d.C. dai burocrati e dai soldati romani i quali, per ragioni di ordine pubblico, avevano bisogno di identificare le comunità poco conformi alle regole. Anche perché “E’ vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazareth non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato”.
Sosteneva che non era in crisi la famiglia cristiana, che non è mai esistita come tale, ma la famiglia tradizionale così come si era andata storicamente determinando. Infatti “il Vangelo non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. La famiglia di Nazareth non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nella convinzione di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie”. Inoltre: “La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si è acquisito il concetto di famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che invece sono relative anch’esse. Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma”.
Era un grande uomo di pace e, a fronte del timore che lo spirito della guerra avesse il sopravvento, richiamava le parole di Bobbio: “Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. E anche se ci fosse un miliardesimo di un miliardesimo di probabilità che il granello sollevato vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne i movimenti, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino”.
Amava Firenze di cui, tuttavia, avvertiva il declino.
"Non sarebbe difficile dimostrare che Firenze è una delle città madri, forse la più importante, dell'Europa moderna e che, con poche altre città, essa ha saputo reggere il passo, fin dalle sue origini medioevali, con le metamorfosi culturali e politiche del continente".
L'ultimo momento in cui la città ha saputo dar prova di fedeltà al ruolo assegnatole dalla storia è stato, tra il '50 ed il '65, l'esperimento amministrativo di La Pira, volto a fare di Firenze il proscenio di un dialogo tra le civiltà nel nome della pace.
Per quanto mi sforzi, la mia immaginazione non riesce a dar forma alla Firenze del prossimo millennio (perchè) è interamente in preda ai presentimenti della decadenza. Come ha preparato la formazione del mondo moderno, così ne prepara dentro di sè la fine e lo fa senza saper gettare al di là della frontiera un segnale adatto a dar corpo all'attesa di una nuova città". Chissà cosa avrebbe detto – anche se lo si può immaginare – a proposito dei lavavetri.
La sera del 22 aprile di sedici anni, a S. Giovanni in Persiceto, davanti alla folla che correva ad ascoltarlo, disse: “Ma vi immaginate voi un Parlamento del mondo? Con la proporzionale? Quale sarebbe il partito maggiore? Il partito degli affamati. Farebbero una legge pericolosa: niente democrazia”. Perché – sosteneva – spesso la democrazia è il nome che noi diamo ai nostri privilegi. E continuò: “Per questo io credo che le rivoluzioni del domani saranno fatte nella democrazia, ma non quella ideologica che copre e legittima le differenze, ma la democrazia che le contesta mettendo in moto le coscienze. E’ questa la via pacifica della rivoluzione. Non con la violenza, ma attraverso la forza persuasiva e coattiva – coattiva nel senso morale – dei principi dell’uguaglianza dell’uomo”.
La notte, nel ritorno alla sua Badia fiesolana, un incidente stradale lo ridusse in coma.
Padre Ernesto Balducci morì tre giorni dopo, il 25 di aprile, all’ospedale di Cesena.
Il Centro per la Pace della città, da allora, porta il suo nome.

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