Srebrenica. Il ricordo e la vergogna


Antonella Napoli


E l’ipocrisia dei ‘mai più’ che pesa su tutti noi.


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Srebrenicacimitero

Il ricordo di Srebrenica, vent’anni dopo, pesa sulle coscienze di molti di coloro che in queste ore sono accorsi a Sarajevo per le celebrazioni del 20mo anniversario di un massacro che si poteva, si doveva, evitare. Come ogni anno, e in questa occasione con ancor maggiore enfasi, si innalzerà un coro di ‘mai più!’. Quel ‘mai più’ che nel 2005 portò l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a riconoscere, dopo ben dieci anni di discussioni e gli spaventosi massacri che si erano verificati in ex Jugoslavia, Ruanda, Congo, Somalia e Sudan, il principio della ‘responsibility to protect’. Quella responsabilità di proteggere che avevano, ma che non ‘sentirono’, i caschi blu impegnati nella forza olandese che vent’anni fa, nei giorni in cui la città bosniaca cadeva nelle mani dei serbi guidati dal generale Mladic, era nel Paese… Semplicemente la ignorarono.

Fu un massacro, furono uccise oltre ottomila persone. Cinquemila di loro avevano cercarto rifugio nella base Onu, ma furono ‘consegnati’ ai serbi che avevano ‘assicurato’ sarebbero stati tutti ‘sani e salvi’ Oggi due testimoni di quegli eventi, all’epoca giovanissimi peacekeepers alla prima missione, ricordano la loro impotenza. E denunciano: volevamo difendere Srebrenica ma non avevano il mandato né le armi per farlo. Eravamo certi che alla fine avremmo ricevuto i mezzi necessari per impedire questa tragedia. Ma non arrivarono mai.

Di fronte a tanta inadeguatezza, allora come oggi, è inevitabile chiedersi se ‘responsibility to protect’ sia solo uno slogan, sollevato per quietare le coscienze di chi si sente costretto a intervenire quando i massacri sono stati già compiuti. O, ancora peggio, se non sia uno strumento utilizzato in modo funzionale a interessi che con lo spirito di giustizia e di compassione hanno poco a che fare. E ripensando alle occasioni in cui la piazza occidentale ha invocato gli articoli 138/139 del Regolamento del 2005, (che attribuiscono ai governi di ogni paese la responsabilità di proteggere la propria e le altre popolazioni da genocidi, crimini di guerra e pulizia etnica) come per l’intervento militare in Libia, la risposta appare scontata.

Evans, che inventò l’espressione ‘responsibility to protect’, la declinava così: la sovranità degli Stati non è una licenza o un’autorizzazione ad uccidere, e di conseguenza nessuno Stato ha il diritto di venir meno alla sua responsabilità di proteggere il proprio popolo dai crimini contro l’umanità, per non parlare poi della giustificazione di perpetrare esso stesso tali crimini. Quando uno Stato non riesce ad esercitare questa protezione, diventa un dovere della comunità internazionale garantirla attraverso un’azione militare collettiva rapida e risolutiva, qualora gli strumenti pacifici non siano sufficienti. Ma dalla teoria alla pratica questi buoni propositi si sono dispersi.

Nei pochi casi in cui il principio è stato finora applicato, si è trattato di interventi unilaterali, come per gli Stati Uniti in Kosovo o – come nel caso della Libia – di una coalizione con una composizione iniziale debole che si è espansa nel tempo e finalizzata, sostanzialmente, al blocco navale nelle acque libiche e a far rispettare la zona d’interdizione al volo.

La “responsabilità di proteggere” fatta valere in Libia, dopo che il regime di Gheddafi aveva risposto alla risoluzione di condanna delle Nazioni Unite intensificando le proprie operazioni militari contro i civili, è stata giustificata ma male applicata.

La mobilitazione internazionale ha sì favorito il rovesciamento del regime libico ma non ha impedito che la violenta repressione nei confronti della popolazione mietesse decine di migliaia di vittime nonostante l’imposizione della no-fly zone sui cieli di Bengasi e di Misurata.

Con l’escalation di violenze dello Stato Islamico in Medio Oriente e in Africa si è animato un dibattito sulla possibilità di sollevare nuovamente il principio della “responsabilità di proteggere” per un secondo intervento in Libia. Ipotesti che, senza alcun dubbio, è l’ultima che i libici e gli altri popoli della regione vogliono si realizzi poiché le conseguenze dell’invasione occidentale in Iraq prima e la missione contro Gheddafi poi, sono state pari alle violazioni dei diritti umani e delle uccisioni che quei regimi avevano fino a quel momento perpetrato.

E dunque la riflessione finale è semplice, trasparente: la comunità internazionale, nonostante abbia tentato di darsi strumenti per affrontare crisi ed eccidi di fronte ai quali non si può e non si deve restare inermi, di fatto resta impotente.

Fonte: www.articolo21.org

11 luglio 2015

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