La guerra di Erdogan al giornalismo “terrorista”


Serena Tarabini - Nena News


Nuova ondata di arresti di reporter e rappresentanti dei media con l’accusa di aver messo in piedi un’organizzazione terroristica. A monte sta lo scontro del Presidente turco con il suo ex alleato Fetullah Gulen per il consenso dell’elettorato religioso.


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Si tratta del’ultimo capitolo di una storia già nota. Uno scontro di poteri in corso da quando due ex alleati sono diventati acerrimi nemici. Fra gli arrestati eccellenti dell’impressionante operazione di polizia messa in campo  dal Governo turco nei confronti di giornalisti e rappresentanti dei media, ci sono  Ekrem Dumanlı il direttore di Zaman, uno dei principali quotidiani d’opposizione, e Hidayet Karaca, presidente del gruppo mediatico Samanyolu. Entrambi  gli importanti mezzi di informazione sono notoriamente vicini al movimento politico fondato  da Fetullah  Gulen, il potente Imam  che  dal suo esilio negli Usa  si contende  con il Presidente Erdoǧan  il consenso  dell’elettorato religioso.

Dopo aver riportato insieme  in auge il progetto di un Islam politico, divergenze di idee e  parità di ambizione hanno fatto si che fra i due iniziasse una guerra di bassa intensità esplosa con lo scandalo corruzione che travolse il Governo  dell’allora premier Erdoǧan, che si difese con la teoria del complotto di stato ordito proprio da Gulen, il cui movimento, oltre a fare capo a una rete di scuole religiose in tutto il Medio Oriente,  influenza porzioni della magistratura e della polizia turca. Il trionfo elettorale di Erdoǧan alle successive amministrative e la sua elezione a presidente mostrarono non tanto l’inconsistenza delle accuse quanto la maggiore  capacità di creare consenso rispetto a quella di un leader religioso che per quanto potente e carismatico  è confinato  da anni in una sorta di autoesilio negli Stati Uniti.

Ma evidentemente,  per  Erdoǧan  la guerra a quello che lui esplicitamente chiama “lo stato nello stato” – e più implicitamente a quello che è il suo unico avversario in campo  politico-religioso – non è finita. Per tutte le 27 persone ora in carcere l’accusa,  secondo il procuratore capo di Istanbul, è di aver messo in piedi un’organizzazione terroristica e di aver diffuso falsità e calunnie. Molti degli arrestati sono altri giornalisti, oltre all’ex capo dell’antiterrorismo di Istanbul.

Ma c’è anche un’altra storia, più antica : quella di un paese che conserva abitudini antidemocratiche  come quella di prendersela  con l’informazione. Secondo il CPI (Comitato Internazionale per la protezione  dei Giornalisti), la Turchia  è uno dei paesi al mondo con il maggiore numero di Giornalisti in carcere; almeno 40  al primo dicembre 2013, più che in Iran, Cina o Eritrea. A consentire una dato cosi rilevante per un paese  democratico che garantisce la libertà di stampa nella sua Costituzione, le leggi antiterrorismo del 2006, che puniscono chiunque si renda  responsabile di fare propaganda  a  un’organizzazione illegale.  Spesso i giornalisti vengono arrestati solo perché stanno facendo il loro lavoro, cioè  scrivere quanto riferiscono i membri  di queste organizzazioni illegali, e i giudici condannano come propaganda ciò che è un servizio alla comunità.

Quindi carcere, spesso torture  e poi strategia del processo vuoto e infinito , come quello inflitto a Hrant Dink, assassinato nel 2007 dopo una lunga persecuzione giudiziaria scaturita da dichiarazioni e articoli sul genocidio degli armeni, o  quello   a carico  di Pınar Selek, sociologa  ed attivista per i diritti umani, accusata di terrorismo  in seguito ad una ricerca  da lei effettuata sul PKK ( Partito Curdo  dei Lavoratori) organizzazione considerata illegale. La sua vicenda giudiziaria  dura dal 1998: assolta tre volte, rinviata a giudizio, condannata all’ergastolo la quarta volta e riprocessata  per la quinta; la prossima udienza avverrà  fra pochi giorni, il 19 dicembre. Da 5 anni si trova in esilio in Francia.

E che dire  di alcuni aspetti della recente riforma della giustizia, come quello che introduce  il “ragionevole sospetto” al posto del “valido sospetto basato su prove concrete” per autorizzare le perquisizioni da parte della polizia? E delle chiusure di Twitter e Youtube nei giorni dello scandalo  e le restrizioni durante la campagna elettorale? Sono molti i modi  con cui lo Stato turco, da sempre, si impegna a sopprimere le voci fuori  dal coro e quello di Erdoǧan, nonostante le sue velleità democratiche ed europeiste,  non fa eccezione. Nena News

Fonte: http://nena-news.it

15 dicembre 2014

 

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