Kosovska Mitrovica Nord


Ennio Remondino


Muoversi lungo le strade delle guerre è un esercizio professionale in cui si misura l’esperienza. Tra Pristina e Mitrovica nord, guerra non è, ma un buon spirito d’osservazione aiuta ad invecchiare in salute.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Kosovska Mitrovica Nord

In questi giorni tenere gli occhi aperti è un obbligo. Il numero dei blindati Nato che trovi a bordo strada a fare da “polstrada” con cannone è un buon termometro. Più ne trovi, più i cavoli che ti attendono sono amari.

Sull'amaro spinto, in questi giorni, nella Mitrovica nord della ostinazione serba. Il problema è che, per arrivarci, devi attraversare la “linea del fronte”, o meglio, quel ponte sul fiume Ibar che prima univa le due parti di Mitrovica ed ora ne segna la demarcazione etnica. A sud la parte albanese, a nord quella serba. Dicono che sia sempre Kosovo, indipendente per giunta, ma non tutti sono d'accordo. Dall'altra parte del fiume uno striscione gigantesco ti avverte che “Il Kosovo è Serbia”. Arrivo da sud su di una macchina con targa Pristina, la scassata Mercedes rossa di “Yanez”, il nostro amico-autista albanese che parla con l'operatore Rai, Miki Stojicic, tranquillamente in serbo. Solitamente quel ponte lo attraversi a piedi: auto albanese su una sponda, auto del tassista serbo sull'altra sponda ad aspettarti.

La scena di certi film di spionaggio sulla Guerra fredda: scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Unione Sovietica a Potsdam, sul mitico Glienicker Brücke , il ponte delle spie. Peccato che oggi il ponte kosovaro sia chiuso, blindato. Pochi poliziotti internazionali Unmik compaiono soltanto sulla parte albanese. A spiegare bastano le serpentine di filo spinato e gli ostacoli anti carro che sbarrano la strada. Si entra da sud, dalla statale “Pesce”, o “Squalo”, interpretando più marzialmente il disegnino che sostituisce la toponomastica per un esercito internazionale che neppure si capisce. Poi svolti verso Belgrado che, guarda caso, è sulla strada “serpente”, forse “cobra”. Il dettaglio che rassicura nella segnaletica elementare Nato, è vedere la figurina col numero di carri armati che il ponte su cui stai passando può reggere. Due tank affiancati oppure, uno per volta, a senso unico alternato. Noi non pesiamo tanto e passiamo tranquillamente badando alle bandiere che pavesano le case di questa zona di appartenenza incerta. Quando finiscono quelle americane e albanesi affiancate, sei arrivato. Dietro front per Yanez albanese e dove vedi il tricolore orizzontale trovi il serbo Sandokan del Kosovo salgariano.

Brutta aria attorno, con quel poco di neve primaverile caduta nella notte che non è bastata certo a raffreddare gli animi. Questa gente che si sente in guerra, nella segnaletica dei suoi sentimenti, ci disegna come avvoltoi. Al bar “Dolce Vita” l'espresso è sempre buono, ristretto quanto i sorrisi che ti accolgono. “Italijanski novinari” non è più una raccomandazione. Sono loro ad informarmi, lo hanno sentito per radio, che il governo italiano ha deciso l'apertura di una sua ambasciata a Pristina. La memoria di quando, durante i bombardamenti su Belgrado, D'Alema si preoccupò di precisare che i caccia bombardieri italiani non si limitavano a fare da scorta, ma bombardavano veramente. Pensiero benedicente rivolto a Roma. Anche i colleghi serbi che conosco da tante guerre fa, stanno sulle loro. Difficile dargli torto.

Alla fine prevale comunque la naturale affabilità slava. “Vuoi sapere veramente cosa è accaduto qui il 17?”. “Certo”. “E' accaduto che qualcuno cercava il bagno di sangue, e non eravamo noi”. “Veramente sono volate molte bombe a mano. Il poliziotto ucraino è morto per quello”. “Sì, qualcuno ha lanciato delle bombe a mano, ma loro sparavano con i fucili di precisione. Lo sai chi erano quelli nel tribunale che Unmik e Nato hanno preso d'assalto in assetto di guerra e decine di carri armati? Erano gli ex dipendenti del tribunale di Mitrovica, molte donne, che con l'arrivo di Unmik avevano semplicemente perso il posto di lavoro”. “Questo nessuno l'ha detto”. “Noi l'abbiamo detto, ma non ci ascoltate. Propaganda dite sempre. E poi la provocazione della data. Ignobile. Vigliacco”. C'eravamo visti anche allora, quel 17 marzo 2004, con l'amico serbo. Proprio a Mitrovica. Era guerra in quei giorni, con la caccia al serbo per tutto il Kosovo, case incendiate e ospedali e chiese e monasteri ortodossi. Pulizia etnica si chiama.

Sul quando e sul come della prova di forza Unmik-Nato è rissa persino in sede Onu. Il comandante delle forze di polizia internazionale di Mitrovica, Gerard Gallucci, ha dato le dimissioni per protesta. Nome di origine italiana, passaporto e cittadinanza americana: un insospettabile. Nel rapporto che ha inviato al Palazzo di Vetro, il responsabile Unmik denuncia: “L'operazione per il ripristino dell'ordine e della legge ha portato alla cancellazione dell'ordine e della legge. Se la polizia avesse agito un altro giorno, senza arrestare gli occupanti del Tribunale, forse avremo potuto cantare vittoria”. Al momento, più che di sconfitta potremmo parlare di Caporetto oltre il Piave locale dell'Ibar. Polizia internazionale trasparente tra Mitrovica nord e la Serbia autentica. Territorio libero dove i simulacri di un confine kosovaro, già distrutto una volta, ora regolano il traffico senza neppure applicare dogana. Attorno solo militari della Nato e con moderazione. Elicotteri per aria, sempre, e gruppi di blindati Kfor che guardano e riferiscono.

Tornato nella Pristina dei miei amici albanesi il giorno della festa del papà, Internet mi informa che il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha firmato un documento che autorizza assistenza militare al Kosovo. Leggo che il decreto inserisce il Kosovo nella lista dei paesi autorizzati a ricevere assistenza militare ”al fine di rafforzare la sicurezza degli Stati Uniti e favorire la pace mondiale”. Più “armi per la pace” è un bel ossimoro, quasi quanto la “Guerra umanitaria”. La Casa Bianca, leggo, “mira a rafforzare le relazioni tra Usa e Kosovo in materia di sicurezza, a favorire la stabilità dei Balcani e a migliorare le capacità del Kosovo di combattere il terrorismo, di prendere parte ad attività di peacekeeping e di affrontare le emergenze umanitarie”.

Manco il tempo di decidere se ridere o piangere ed ecco “l'uccellino” che mi sussurra all'orecchio la novità di casa. L'esercito kosovaro albanese che Bush si prepara ad armare, sarà proporzionato al paese. Duemilacinquecento professionisti. Un po' della vecchia Uck della rivolta armata anti serba del 1998, un po' di neo arruolati in grado di usare, oltre al vecchio e familiare Ak47 kalashnikov, anche giocattoli di guerra più sofisticati. Un piccolo esercito con piccoli carri armati, piccoli elicotteri, piccoli cannoni. Per fare “Peacekeeping” come dice Bush. La notizia vera, nel racconto di qualsiasi spia che ti voglia tenere sulle spine, come nei gialli arriva in fondo. “Lo sai chi è previsto che organizzi, addestri e faccia crescere il futuro esercito nazionale kosovaro?”. Il mio No è scontato. “Il contingente italiano della Nato. Villaggio Italia, sopra Pec. Anzi, Peja ora”.

Le mie fonti sono buone. Non so se lo sono altrettanto quelle della Farnesina e di Via XX Settembre, alla Difesa. Alcuni di loro sanno. Non so se sanno tutti i membri del governo italiano. Sicuramente non lo sanno gran parte dei parlamentari e dei cittadini italiani. Sorpresa insomma, nell'attesa di smentite prevedibili e bugiarde. Nel frattempo, con la mia “Gola profonda”, parliamo anche della missione europea “Eulex”, che già sta invadendo il Kosovo con l'euro comunitario che si mangia il dollaro. A lanciare l'allarme è il quotidiano austriaco Die Presse che cita fonti della Commissione europea. Stando al giornale, “il progetto più prestigioso dell'Ue rischia di naufragare dopo le violenze di lunedì scorso avvenute a Mitrovica. Qualora la situazione si calmasse, è incerto che Eulex possa prendere il via a metà giugno come previsto, quando i poliziotti e i giuristi Ue dovrebbero farsi carico di una parte del lavoro dell'Unmik. La missione Onu potrebbe infatti rimanere in Kosovo più a lungo del previsto”.

Detta in altre parole e come già anticipato dal Manifesto, l'Onu non intende muoversi da qui e, soprattutto, non ha alcuna intenzione di lasciare il passo alla missione dell'Unione europea cui manca qualsiasi forma di legittimazione. La missione Kosovo, che finisce a giugno, è già stata di fatto rifinanziata. Sul campo,  problemi pratici che ne derivano: dove andranno a sistemarsi i 2000 di Eulex in arrivo? L'ex sede amministrativa Unmik, lungo il viale di Kosovo Polje, non sarà disponibile. Come pure la vicina caserma dell'Unità speciale multinazionale, che sono i nostri carabinieri. Niente logistica, né progetto, né futuro in comune. E l'avventura Kosovo è soltanto all'inizio. Al momento, ad essere molto arrabbiata, è la Serbia. Non passerà molto tempo che a reagire sarà lo stesso Kosovo albanese, quando la montagna di soldi in arrivo non basterà più a coprire le tante bugie delle promesse fatte.

Fonte: il Manifesto

29 marzo 2008 

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento