Grazie Tom ci manchi ancora


Flavio Lotti


Dieci anni fa, il 20 giugno 2004, se ne andava all’improvviso Tom Benetollo, uno dei principali animatori del movimento per la pace degli anni 80 e 90. Lo voglio ricordare con le stesse parole di allora. Spesso abbiamo avuto idee diverse eppure abbiamo camminato insieme per più di venti anni. Lui alla pace ci credeva davvero. Il vuoto che ha lasciato si sente ancora.


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Giunto al Circo Massimo, il corteo non sembrava finire più. La gente camminava lentamente lungo i viali alberati, con un ritmo continuo, incessante. Era tantissima. Molta di più di tutte le migliori previsioni. All’angolo con viale Aventino, vicino all’ingresso della metropolitana, ho incontrato Tom per l’ultima volta. Era il 4 giugno 2004. Bush era a Roma e, nonostante le pesanti intimidazioni e il clima da coprifuoco, i romani non avevano rinunciato a farsi sentire.

La giornata non era ancora finita (e con essa le sorprese) ma con Tom non era difficile trarre un bilancio. Conoscevamo entrambi la difficile gestazione della manifestazione, le molte fatiche, gli ostacoli superati, le infinite mediazioni, i compromessi raggiunti e, soprattutto, i tanti rischi a cui ci eravamo esposti. Lui da presidente dell’Arci e io da coordinatore della Tavola della pace.

Non era andata bene. Era andata benissimo: alla faccia di tutti coloro che avevano preferito ostacolarne il cammino o prenderne le distanze. Merito di quelli che come Tom ci avevano creduto e l’avevano ostinatamente voluta. Tom sapeva che io, in questa impresa, non ero sempre stato al suo fianco. Era capitato anche altre volte che le nostre strade non coincidessero. Diversa la cultura e le esperienze, diverso lo stile e i ruoli scelti o acquisiti. Eppure anche quel giorno, come in tanti momenti cruciali degli ultimi venticinque anni, eravamo lì, fianco a fianco. Una vicinanza sincera, onesta, franca, senza opportunismi.

Ci legava –oltre alle origini venete- una stima e un profondo rispetto reciproco cresciuti in molti anni di comune impegno per la pace.

C’eravamo conosciuti a Padova nel 1979. Tom segretario della FGCI e io obiettore di coscienza. Erano gli anni in cui il movimento per la pace degli anni ’80 muoveva i suoi primi passi rivendicando, da una parte, la sua indipendenza dalla logica dei blocchi politico-militari e, dall’altra, l’autonomia dai partiti. In Veneto prima e a Roma poi, l’incontro con Tom non è stato facile. Eravamo su due sponde opposte: lui già uomo di partito, io appena maggiorenne, alla prima esperienza pacifista. La diffidenza e la tensione erano spesso al massimo, eppure ricordo ancora la sua attenzione e la sua dolcezza per quello sprovveduto pacifista di periferia che interveniva alle riunioni romane del Coordinamento nazionale dei Comitati per la pace in dialetto veneto: “varda che se te continua a parlar in diaeto, qua, no te capise nesun ” (guarda che se continui a parlare in dialetto, qui non ti capisce nessuno).

Col passare del tempo e il moltiplicarsi delle esperienze comuni le diffidenze hanno lasciato il posto ad una crescente stima e collaborazione: le tante manifestazioni contro i signori della guerra che volevano trasformare l’Europa in un campo di battaglia nucleare, i blocchi nonviolenti ai cancelli dell’aeroporto “Magliocco” di Comiso, le infinite riunioni, dibattiti e assemblee, le Convenzioni Europee per il disarmo nucleare a Berlino, Amsterdam, Bruxelles, Perugia,… . Tanto che nel 1985 è tra coloro che mi propongono di fare il coordinatore dei comitati per la pace. Sarà il mio primo incarico nazionale.

Il suo passaggio dal partito all’Arci segna l’avvio di una nuova stagione dei nostri rapporti personali e di una nuova fase della mobilitazione pacifista contraddistinta da una più forte presenza interassociativa. La sua ricca esperienza internazionale, la sua intelligenza e intuizione politica, la sua visione del mondo, la sua generosità e, non di meno, la sua tenacia organizzativa costituiscono un importante punto di riferimento per me e per il movimento di quegli anni. Con Tom abbiamo condiviso ogni accadimento: l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento degli euromissili, lo sgomento per il golpe di Mosca e la fine della Perestrojka di Gorbaciov, il successo della catena umana con israeliani e palestinesi attorno alle mura di Gerusalemme, la grande mobilitazione contro l’invasione del Kuwait e la prima guerra del Golfo.

Ai primi bagliori di guerra nell’ex Jugoslavia, Tom non ha esitazioni e diventa protagonista di una straordinaria sequenza di manifestazioni che intrecciano il rifiuto della guerra, del nazionalismo e della pulizia etnica, la vicinanza e la solidarietà concreta con le vittime del conflitto, il sostegno alle forze di pace che i governi preferivano ignorare, la denuncia delle responsabilità e dei doveri dell’Europa.

E’ probabilmente in quegli anni, dentro a questo tragico scenario, che Tom porta a maturazione la sua riflessione sul ruolo insostituibile della società civile e dei movimenti. La politica “ufficiale” è in costante ritardo, spesso sorda ai bisogni più impellenti di una società mondiale che chiede aiuto e reclama pace, giustizia e diritti. “Spetta a noi percorrere –anche controcorrrente- la strada giusta. Gli altri poi seguiranno” amava ripetere. E così fece, a modo suo, per tutto il breve resto della sua vita.

Quell’ultima volta, il 4 giugno, parlammo a lungo della Tavola della pace e delle tensioni che ne minacciano il futuro. Non ne condivideva sempre le scelte ma riconosceva il suo ruolo prezioso all’interno del movimento dei movimenti. Mi disse che l’Arci avrebbe fatto ogni sforzo per salvaguardare l’autonomia e lo sviluppo di questa esperienza. E così fece parlandone subito con gli amici, dentro e fuori l’Arci, fino alla vigilia di quel tragico 20 giugno.

Contrariamente a quanto mi aveva assicurato, quel giorno non venne alla riunione del direttivo. Ma non dipendeva più da lui. Tom se n’era andato lasciando un vuoto incolmabile.

Mi piace ricordarlo, alto, con le braccia tese al cielo, mano nella mano con Faisal Husseini e Galia Golan davanti alle antica mura di Gerusalemme, sorridente, gridare fiducioso e determinato: “It’s time for peace. Let’s do it”.

Flavio Lotti, Coordinatore nazionale della Tavola della pace

Perugia, 29 luglio 2004

 

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Giunto al Circo Massimo, il corteo non sembrava finire più. La gente camminava lentamente lungo i viali alberati, con un ritmo continuo, incessante. Era tantissima. Molta di più di tutte le migliori previsioni. All’angolo con viale Aventino, vicino all’ingresso della metropolitana, ho incontrato Tom per l’ultima volta. Era il 4 giugno 2004. Bush era a Roma e, nonostante le pesanti intimidazioni e il clima da coprifuoco, i romani non avevano rinunciato a farsi sentire.

La giornata non era ancora finita (e con essa le sorprese) ma con Tom non era difficile trarre un bilancio. Conoscevamo entrambi la difficile gestazione della manifestazione, le molte fatiche, gli ostacoli superati, le infinite mediazioni, i compromessi raggiunti e, soprattutto, i tanti rischi a cui ci eravamo esposti. Lui da presidente dell’Arci e io da coordinatore della Tavola della pace.

Non era andata bene. Era andata benissimo: alla faccia di tutti coloro che avevano preferito ostacolarne il cammino o prenderne le distanze. Merito di quelli che come Tom ci avevano creduto e l’avevano ostinatamente voluta. Tom sapeva che io, in questa impresa, non ero sempre stato al suo fianco. Era capitato anche altre volte che le nostre strade non coincidessero. Diversa la cultura e le esperienze, diverso lo stile e i ruoli scelti o acquisiti. Eppure anche quel giorno, come in tanti momenti cruciali degli ultimi venticinque anni, eravamo lì, fianco a fianco. Una vicinanza sincera, onesta, franca, senza opportunismi.

Ci legava

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