2 ottobre, giornata della nonviolenza
La redazione
Aldo Capitini: In una concezione aperta della realtà, c’è posto per educare alla scelta di modi nonviolenti di azione, e alla sua volta, tale educazione sollecita a formarsi quella concezione aperta della realtà.
Quando si parla di una progressiva sostituzione della nonviolenza nello sviluppo della società umana, si pensa subito che tale compito debba essere adempiuto in gran parte dall’educazione, educazione degli adulti e specialmente degli adolescenti. L’utilizzazione degli indirizzi attivi, democratici, cooperativi così sviluppati nella pedagogia degli ultimi decenni, è un modo educativo che tende ad eliminare gli elementi coercitivi, le chiusure nazionalistiche, razziali e classiste; la stessa sostituzione di un imparare facendo e in libera ricerca all’apprendere passivo di schemi e nozioni fisse, giova a svegliare e incoraggiare le capacità creatrici, ad offrire il mezzo di affermarsi normalmente, e quindi ad eliminare la violenza sia dell’imposizione da parte dell’educatore sia della reazione da parte dell’educando. L’educazione alla lealtà, alla sincerità, alla libera discussione, al rispetto delle minoranze, dei refrattari, degli eretici, l’attenzione a chi è fuori del gruppo, gli scambi di scolari, i campi estivi internazionali, rientrano in questo ambito. Alcuni sono convinti che se i grandi blocchi attuali politico-militari si scambiassero, per lunghi periodi di soggiorno, migliaia e migliaia di giovani lavoratori e studenti, un conflitto bellico diventerebbe più difficile. Perciò le agevolazioni offerte al libero sviluppo costruttivo, con le soddisfazioni che questo porta, e le molte possibilità di “dialogo” e di conoscenza reciproca, rafforzano il desiderio di una convivenza priva di violenza, e fanno sentire il piacere di un esercizio della razionalità e del sentimento di simpatia umana in vasti gruppi, nell’ essere insieme.
Un altro modo è quello offerto dal diritto. È certo che la legge crea un certo ordine, impedisce molte manifestazioni violente nella società, difende da sopraffazioni, offre garanzie di pace. Tuttavia questo modo presenta due grosse difficoltà: la prima, che la legge è accompagnata quasi sempre, nella teoria e nella pratica, dalla coazione; la seconda che la legge difende un certo ordine già stabilito, che può risultare meno giusto rispetto ad un ordine da fondare. Perciò la legge, per tendere alla nonviolenza, deve portare con se stessa due correttivi:
1) la riduzione dell’elemento coattivo mediante misure umanitarie;
2) la possibilità di sostituire, senza violenza, leggi nuove e migliori alle leggi vecchie.
Chi è per la nonviolenza non può avere simpatia per i conservatori o duri, perche è appunto il loro atteggiamento che alimenta la violenza dei rivoluzionari. Dice il Dewey: “li ribelle è il prodotto di una estrema cristallizzazione e immobilità inintelligente. La vita si perpetua solo rinnovandosi: se le condizioni non permettono al rinnovamento di aver luogo in modo continuo, esso avrà luogo in modo violento e esplosivo. li prezzo delle rivoluzioni deve essere addossato a coloro i quali hanno voluto per i loro scopi fermare il costume invece di riadattarlo” (J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 177).
Al modo dell’attivismo partecipativo e al modo della legge rinnovantesi è necessario fare aggiunte perche essi progrediscano verso la nonviolenza. L’educazione attiva potrebbe rischiare di rimanere sollecitazione e svolgimento delle energie in direzione prevalentemente amministrativa, come difesa di ciò che si è, come continuazione della vita se non si aggiungesse un senso del valore come intima trasformazione. Solo i valori trasformano intimamente; ciò che è utile serve a far continuare la vitalità. Ci vuole questa direzione verticale per dare una qualità all’attivismo educativo. Esso deve esser portato a creare il bello, il vero, il bene, cioè a svolgere le intime categorie creatrici di tali valori. In essi c’è un rafforzamento contro il pericolo di passare alla violenza. Se i fanciulli non esercitano la creatività di quei valori, pur in un metodo, nel resto, attivo, potrebbero vedere nella violenza qualche cosa di supremo, perche i fanciulli – non dimentichiamolo – vogliono moltissimo.
L’aggiunta alla legge rinnovantesi è la coscienza della realtà di tutti. La storia è il progressivo dilatarsi del senso di tutti (si pensi al significato di “tutti” per Comenio, Didattica magna, Sandron, Palermo 1935, per esempio pp. 59, 341, dopo Giovanni Huss, cfr. Mazzini, Doveri dell’uomo, cap. X, La Nuova Italia, Venezia 1927); mai come in questa epoca, dopo l’illuminismo e lo storicismo, il senso di tutti è stato tanto vivo. Bisogna pronunciare il termine “tutti” con la stessa reverenza con cui si pronuncia quello di Dio. L’apertura a tutti deve essere coltivata quotidianamente, sì da diventare un riferimento evidente e un costume. Allora si comprende l’intimo rapporto tra il diritto e la realtà di tutti, tra l’universalità di fatto e l’universalità di diritto. Sarebbe un limi tarlo congiungere il diritto alla legge morale, come se questa riguardasse la coscienza dell’individuo, e non ci fosse altro: si trascurerebbe l’avvertimento kantiano: “noi dobbiamo sempre obbedire alla legge morale; e a ciò si aggiunge anche il dovere di operare con tutte le forze affinche un tal rapporto (un mondo, cioè conforme a supremi scopi morali) esista” (nel saggio sopra il detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”; in Scritti politici, UTET, Torino 1956, p. 243). Porre accanto al diritto la religiosa realtà di tutti, vale continuamente ad integrarlo.
A questo punto possiamo esplicitamente definire la nonviolenza come unità amore verso tutte le persone nella loro individualità singola e distinta, persona da persona, con vivo interesse anche alla loro esistenza, in un atto di rispetto ed affetto senza interruzione, con la persuasione che nessuna persona è chiusa nel suo passato, e che è possibile dire un tu più affettuoso e stabilire un’unità più concreta con tutti.
Come tale dunque, la non violenza è tutt’altro che passiva, anzi è attiva e inventiva, aperta ad una trasformazione della realtà e della società, in ciò che esse sono violenza, oppressione, morte. La non violenza, è perciò, iniziativa di qualche cosa di diverso, auspicante una trasformazione. Sarebbe un errore educare i fanciulli alla conoscenza della realtà e della società attuali come perfette, e non avvivare – corrispondendo del resto ad una intima loro esigenza – che esse possano trasformarsi in meglio ad un migliore servizio verso la realtà di tutti. La categoria della trasformabilità della realtà e della società va coltivata attivamente e ricondotta sempre ad esigenze etico-sociali, non individualistiche e fantastiche.
La pedagogia della nonviolenza, ha, dunque, una forma indiretta ed una forma diretta: l’indiretta che consiste nell’esercizio dello sviluppo individuale e del dialogo democratico, la diretta che è nella esplicita fede in un atto di unità amore verso tutti, che si aggiunge, da un centro di vita religiosa, alla realtà circostante. La stessa distinzione può trovarsi nella considerazione psicologica. Trasformare le energie combattive in attività fisica nel mondo esterno (lavoro, sport, gare, imprese rischiose), in distruzione di oggetti, in sfoghi mediante scritti, in soddisfazione per mezzo di rappresentazioni e di immagini, o assistendo alle lotte altrui; portare la lotta a forme indirette; addestrare al controllo di proprie tendenze inferiori; indirizzare l’energia combattiva a lotte contro i mali della società: questi suggerimenti che gli psicologi danno, non dovrebbero trarre nell’errore che sia nativo nel fanciullo un istinto di lotta: nativo è un impulso, un’energia, e sta a noi e all’ambiente l’indirizzo, l’incanalamento, la qualificazione di tale energia che potrebbe anche rivolgersi ad una crescente e attiva, fraterna simpatia con gli esseri vicini e lontani, in attenzione a salvare, materialmente e con l’animo, i limitati, i colpiti, gli affranti, e in inesauribile cortesia e ferma gentilezza verso tutti. La forma indiretta è quella dello “sfogo” in altro dalla violenza, la forma diretta è quella della tensione per un eroismo nonviolento di rivoluzione contro l’attuale realtà e società; per un sentimento di amore verso tutti, che ha trasformato l’intimo dell’individuo in una specie di “metanoia”, di capovolgimento interiore evangelico (si tratta di una trasformazione radicale dello spirito, capovolgendo i valori della potenza, in attiva apertura a Dio e all’avvento della sua realtà imminente). Anche qui vediamo che la nonviolenza è intimamente attiva positiva, e non negazione, come il termine potrebbe suggerire.
Perciò non è soltanto importante che il fanciullo sia circondato da un ambiente e da occasioni che lo tengano lontano dalla violenza; che egli veda armonia tra i genitori, per avere l’uno alleato nell’affetto verso l’altro (il dramma di Amleto è di non avere la madre alleata nella reverenza verso il nobile padre; da cui la violenza); che egli non sia vittima inerme della scarica su di lui dei complessi degli adulti; che gli siano offerte biografie eroiche non nel senso della violenza. Ma importa, e anche più, che la disposizione che il fanciullo avrebbe ad una vicinanza con tutti gli esseri, sia confermata dagli adulti, arricchita di sapere e di tecniche, posta al centro della vita stessa, per cui diventa gioia ogni estensione di affetto, e dolore ogni eccezione che si debba fare per stretta necessità di difesa o di giustizia, eccezione che si augura non sia più necessaria in seguito.
(Aldo Capitini, La nonviolenza oggi, IN “Scritti sulla nonviolenza”, Perugia, Protagon 1992, p.158)