11 febbraio 1990: vent’anni fa la scarcerazione di Mandela


Manuela Bianchi


Dopo il crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989, dopo poche settimane crollava anche l’odioso regime di apartheid che governava il Sudafrica. Tornava infatti in libertà, dopo 27 anni di carcere, Nelson Mandela, simbolo libero dell’Africa contemporanea.


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11 febbraio 1990: vent’anni fa la scarcerazione di Mandela

«Amici, compagni, fratelli sudafricani, vi saluto in nome della pace, della democrazia e della libertà! Sono qui davanti a voi non come profeta, ma come vostro umile servitore. È per i vostri instancabili, eroici sacrifici che oggi posso essere qui, e quindi pongo nelle vostre mani gli anni che mi restano da vivere». Così si rivolse Nelson Mandela alla folla oceanica che occupava la Grand Parade, la piazza del municipio di Cape town, quell’11 febbraio 1990 in cui si lasciava alle spalle 10mila giorni di carcere. Salutò e ringraziò tutti coloro che avevano sostenuto la sua scarcerazione, in primis l’African national congress (Anc) di cui faceva parte fin dal 1944 e del quale presto sarebbe diventato presidente; poi l’Umkhonto we Sizwe – la struttura militare dell’Anc a cui lo stesso Mandela diede forma nel 1961 – il Communist party sudafricano, l’Udf (Fronte democratico), il South african youth congress – da egli fondato nel 1944 – e ancora il Cosatu (Congresso dei sindacati sudafricani), l’Mdm (Movimento di massa democratico), il sindacato nazionale degli studenti africani, e il Black Sash, un gruppo di donne politicizzate. In quelle parole c’era una promessa: l’apartheid avrebbe avuto vita breve. E così fu.
 
La condanna all’ergastolo
La liberazione di Nelson Mandela arrivò dopo 27 anni di detenzione. Il suo arresto all’indomani di lunghi mesi di preparativi della giornata di astensione dal lavoro, proclamata dall’Anc per il 29 maggio 1961 come politica non violenta contro una campagna repressiva nei confronti dei leader dell’opposizione. La mobilitazione ebbe grande seguito, centinaia di migliaia di persone rischiarono l’impiego aderendo allo sciopero in tutto il Paese, la celebrazione per la proclamazione della Repubblica sudafricana venne adombrata da questa mobilitazione di massa. Ma alla fine dei conti la risposta popolare, benché importante, si dimostrò non all’altezza delle aspettative. La presa di coscienza dell’insufficiente partecipazione alla mobilitazione instillò un dubbio nel 43enne Nelson Mandela circa l’efficacia dei sistemi di lotta portati avanti fino ad allora per contrastare il dominio bianco. Il giorno dopo la mobilitazione, davanti ad alcuni giornalisti locali e stranieri, accanto alla definizione di «enorme successo» riferita al 29 maggio, Mandela non nascose di ritenere che un nuovo giorno stesse per nascere: «Se la reazione del governo è quella di schiacciare con la forza bruta la nostra lotta nonviolenta, saremo costretti a rivedere la tattica. A mio avviso il capitolo della politica nonviolenta sta per essere chiuso».
 
E così attuò la prima forzatura all’interno dell’Anc poiché si era espresso senza aver prima dibattuto la questione all’interno dell’organizzazione. In seguito sollevò, concordandolo con alcuni compagni, l’idea della lotta armata all’interno del Comitato operativo. La convinzione di Mandela era che la situazione del Sudafrica stesse degenerando e che già pezzi di popolazione avessero deciso di armarsi. Era perciò auspicabile cavalcare l’annunciata rivolta anziché restarne fuori. Non fu facile, ma alla fine gli venne conferito l’incarico di formare un braccio armato separato dall’Anc, che prese il nome di Umkhonto we Sizwe e che, contrariamente a quanto accadeva nell’African national congress, non faceva distinzione tra bianchi e neri nel reclutare gli affiliati. Nel 1963 Mandela è arrestato e dopo un procedimento durato nove mesi, condannato all’ergastolo. In due occasioni, negli anni Settanta e negli anni Ottanta, il governo gli propose la scarcerazione in cambio della rinuncia ai suoi principi di lotta. Ma lui rifiutò sempre. Era figlio di un capo della tribù Thembu cresciuto secondo il principio che “democrazia significava che tutti i presenti dovessero essere uditi, e che una decisione dovesse essere presa complessivamente come popolo; la regola della maggioranza era un concetto sconosciuto: la minoranza non doveva in ogni caso essere schiacciata”.
 
Mandela non avrebbe mai rinnegato il suo popolo e il suo diritto a una vita dignitosa. «Sono pronto a scontare la mia pena, pur sapendo quanto sia dura e disperata la condizione di un africano nelle prigioni di questo Paese – dirà in qualità di avvocato di sé stesso nell’arringa difensiva al suo processo -… Tuttavia queste considerazioni non mi distolgono dalla via che ho scelto, né distoglieranno altri come me. Per gli esseri umani la libertà nella propria terra rappresenta l’aspirazione più alta, dalla quale nulla può distogliere l’uomo di fede. Più forte della paura per le orribili condizioni alle quali potrò essere sottoposto in prigione è in me l’odio per le orribili condizioni a cui è sottoposta la mia gente fuori della prigione, in tutto il Paese». L’11 febbraio 1990 c’è il primo segnale verso la democratizzazione del Paese, una pietra miliare nella storia del Sudafrica che da lì cominciò a guadagnare terreno nel campo dei diritti civili, politici, umani. Fu l’allora presidente Frederik Willem de Klerk, del National party, a guidare la transizione dal punto di vista istituzionale, sancita in un suo discorso del 2 febbraio 1990, che porterà non solo alla scarcerazione di Mandela e di altri prigionieri politici, ma anche alla nuova legalizzazione dell’Anc e di altri 31 movimenti di opposizione messi al bando, alla scarcerazione di tutti i prigionieri politici detenuti per azioni non violente, alla sospensione della pena capitale e all’abolizione di varie restrizioni imposte dallo stato di emergenza; ma soprattutto segnò la vittoria politica di Mandela. «Il momento del dialogo è arrivato», disse de Klerk, e la macchina del negoziato scaldò i motori. Ciò che con la scarcerazione di Nelson Mandela segna l’inizio di una nuova era per un popolo oppresso e discriminato per secoli, ha avuto però lunghi anni di incubazione. Nasce con quel “primo passo” avviato da Mandela nel 1985 verso l’instaurazione di un dialogo con il governo di Pretoria.
 
Una scelta politica concepita e strategicamente proposta dallo stesso Mandela durante lo “splendido isolamento” in cui si trovò a vivere nell’ultimo periodo della sua detenzione che gli diede la possibilità di concertare una serie di colloqui segreti con il governo – a titolo non più dell’Anc, ma personale – per giungere a una soluzione dell’emergenza civile che dominava la scena sudafricana. L’Anc infatti non lo avrebbe appoggiato in quel momento sulla strada dell’abbandono della lotta armata. Era ormai una organizzazione fuorilegge dal 1960, in seguito al più cruento dei tanti massacri perpetrati dal regime afrikaaner, quello della township di Sharpeville dove furono uccisi dalle forze dell’ordine 69 pacifici manifestanti africani che attuavano una protesta contro i lasciapassare, colpiti alla schiena mentre cercavano di darsi alla fuga. 400 furono i feriti, in maggioranza donne e bambini. La notizia del massacro di Sharpeville fece il giro dei media mondiali, creando scompiglio nell’opinione pubblica internazionale. Anche l’Onu intervenne condannando per la prima volta il governo sudafricano per la carneficina e chiedendo di istituire la parità razziale (nel 1961 le Nazioni Unite, pur senza effetti pratici, definiranno l’apartheid “crimine contro l’umanità”).
 
La Borsa di Johannesburg precipitò, i sudafricani progressisti chiesero misure a favore degli africani, mentre il governo attribuiva il massacro a un complotto comunista. La “risposta” all’eccidio fu organizzata magnificamente dall’Anc, che portò il Paese all’astensione dal lavoro il 28 marzo in segno di lutto. In molte aree del Paese scoppiarono disordini, e il Sudafrica proclamò la legge marziale e la messa al bando dell’Anc. L’African national congress aveva spaziato dalle grandi campagne non violente degli anni Cinquanta contro l’instaurazione dell’apartheid – la cui istituzionalizzazione risale al 1948 – alla scelta della mobilitazione di massa e alla creazione delle prime strutture armate clandestine in occasione dell’inasprimento della repressione nei primi anni Sessanta che delegittimò qualsiasi opposizione. Non avrebbe perciò seguito la strada del dialogo. Mandela si assunse dunque tutti i rischi politici di una decisione che sembrava stridere con l’esplosione del movimento di massa nelle township nere e il momento storico vissuto dal Paese. Ma la sua mente di fine statista che gli aveva dettato anni prima la necessità di rispondere con la violenza alla violenza disumana subita dagli africani, a ridosso degli anni Novanta gli consigliò la strada della conciliazione.
 
La via della conciliazione
«Ero giunto alla conclusione che fosse arrivato il momento in cui i negoziati potevano far progredire la lotta, e se non fossero iniziati immediatamente entrambe le parti sarebbero precipitate nelle tenebre dell’oppressione, della violenza e della guerra civile… Noi avevamo la ragione dalla nostra parte, ma non ancora la forza, e mi rendevo conto che una nostra vittoria militare era un sogno lontano, se non impossibile. Semplicemente non aveva senso che entrambe le parti sacrificassero migliaia, se non milioni di vite umane in un inutile conflitto, e anche il governo doveva averlo capito. Era giunto il momento di parlare», scrive Mandela nell’autobiografia. L’occasione gli fu offerta dalla visita in carcere di una delegazione dell’Onu per appurare l’opportunità di sanzionare il Sudafrica per l’apartheid. In quel frangente Mandela espresse l’idea che era venuto il momento di negoziare e non di combattere: prospettò l’ipotesi della sospensione della lotta armata, se il governo avesse ritirato esercito e polizia dalle township. La conseguenza fu l’incontro con il ministro della Giustizia sudafricano Kobie Coetsee che segnò l’inizio del dialogo. L’intima convinzione di Mandela era che solo la normalizzazione della politica sudafricana attraverso il riconoscimento agli oppositori di pari dignità politica avrebbe potuto portare all’apertura di un negoziato e all’eventuale abbandono, da parte dell’Anc, dei metodi di lotta violenti.
 
Dopo la liberazione, inizia un periodo denso di soddisfazioni per Rolihlahla, il nome che Mandela aveva ricevuto dal padre alla nascita – il cui significato in lingua xhosa è letteralmente “chi tira il ramo di un albero”, o più confidenzialmente “attaccabrighe” – che poi fu cambiato nel cristiano Nelson dalla sua maestra in prima elementare. Nel 1991 Mandela viene eletto presidente dell’Anc. Il 20 dicembre dello stesso anno ebbe inizio la Conferenza per un Sudafrica democratico (Codesa), primo negoziato ufficiale tra Anc, governo e altri partiti sudafricani. Sul piano politico la vera posta in gioco era la popolarità della stagione delle riforme dell’allora presidente de Klerk, messa in dubbio da una defezione degli elettori del National party di Potchefstroom nel Transvaal, che diedero il loro voto all’estrema destra in polemica con le scelte del presidente. A quel punto de Klerk promosse un referendum – aperto solo agli elettori bianchi – il cui quesito era: “Siete favorevoli alla continuazione del processo di riforme avviato dal presidente il 2 febbraio 1990, mirante ad arrivare a una nuova Costituzione attraverso i negoziati?”.
 
Il futuro del Sudafrica è stato influenzato anche da quel 69% di elettori che si espresse per il “sì”, sancendo così una grande vittoria per il presidente de Klerk che poi, a fianco di Mandela, smantellerà l’intero sistema della segregazione razziale ponendo fine all’apartheid. Il 26 settembre 1992 ci fu un altro passo avanti nei negoziati. Dal vertice ufficiale tra Mandela e de Klerk nacque un protocollo d’intesa: il governo accettava che si eleggesse un’unica Assemblea legislativa con il compito di formulare la nuova Costituzione e di fungere da governo provvisorio in attesa delle nuove elezioni politiche. Il 3 giugno 1993 la Conferenza multipartitica fissò la data delle prime elezioni democratiche in Sudafrica – non razziali e a suffragio universale – per il 27 aprile 1994, data in cui Mandela viene eletto presidente con il 62,6% delle preferenze, ottenendo 252 dei 400 seggi dell’Assemblea nazionale. De Klerk viene così sconfitto da Mandiba – il nome del clan a cui appartiene Mandela e con cui viene chiamato in segno di rispetto – che sale alla presidenza il 10 maggio 1994 dando vita a un governo nel nome dell’unità della nazione arcobaleno (i colori della bandiera nazionale). Nello stesso anno Mandela e de Klerk vennero insigniti del premio Nobel per la pace.
 
Nel 1999 Mandela rinuncia a candidarsi per il suo secondo mandato presidenziale e annuncia il ritiro dalla vita pubblica. Ora risiede nel Transkei, la regione che gli diede i natali il 18 luglio 1918, dove, primo caso nella famiglia, cominciò la sua carriera scolastica culminata nella laurea in giurisprudenza. «L’istruzione che ricevetti fu un’istruzione inglese – dice nella sua autobiografia la Lungo cammino verso libertà, edita nel 1995 (Feltrinelli), dalla quale sono stati tratti tutti i virgolettati di questo articolo – in cui le idee inglesi, la cultura inglese, le istituzioni inglesi erano considerate automaticamente le migliori. La cultura africana era una cosa che non esisteva nemmeno». Era quello il mondo in cui muoveva i suoi passi infantili Nelson Mandela, un universo dove i bianchi (come il magistrato locale, il poliziotto o il gestore del negozio più vicino) erano marginali nella vita di un bambino, ma visti attraverso gli occhi innocenti come dèi splendenti da temere e a cui dovere rispetto. Quella realtà, per fortuna, non esiste più. Almeno in Sudafrica.

Fonte: Terra

8 febbraio 2010

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